L’evoluzione della crisi ucraina appare ormai segnata da due faglie che si ricongiungono.
La prima è interna a Kiev: le dimissioni di Yermak (il Richelieu stretto sodale di Zelensky nonché vero capo-cosca dell’Ucraina-azienda) dopo l’irruzione del NABU mostrano che il palazzo presidenziale è entrato in un ciclo di decomposizione politica. Non parliamo solo dell’immensa corruzione endogena: strutture come il NABU furono create e potenziate dagli USA come fusibili politici, dispositivi per monitorare, ricattare e, se necessario, far saltare l’edificio istituzionale che la stessa Washington aveva contribuito a costruire. La corruzione diventa una leva, se osservata con gli strumenti giusti: pensate a tutti gli effetti dirompenti dell’inchiesta Mani Pulite che demolì il sistema politico dei partiti della cosiddetta Prima Repubblica italiana. È una leva dapprima per la complicità controllata, poi per l’eliminazione degli inservibili con una scusa legalitaria. È il metodo classico per sganciarsi senza ricevere troppi danni, per presentarsi da vincitori anche in condizioni materiali di perdita. Gli imperi capiscono che il fantoccio rischia di crollare addosso a loro. Perciò: prima la complicità vigilata, poi il colpo di spugna legalitario.
La seconda faglia è euro-atlantica. La sortita di Orbán a Mosca – fulminea, silenziosa, con mezzo governo al seguito – conferma che l’UE non ha più un baricentro strategico, per quanto il sosia di Eichmann che guida Berlino strilli contro gli ungheresi come un’aquila spennata. Nel frattempo USA e Russia trattano bilateralmente, al tempo in cui l’indiscrezione del Telegraph su un possibile riconoscimento americano dei territori sotto controllo russo rivela dove stia davvero maturando l’esito del conflitto.
Ecco perché oggi i NAFO – la milizia digitale di meme-warrior filo-ucraini – si agitano come scarafaggi impazziti, oscillando tra l’idea che le inchieste anticorruzione siano segno di vitalità democratica e la tesi opposta: una epica prova di forza di Zelensky. Come no? L’incapacità di scegliere la narrazione giusta è già una diagnosi della loro disfatta. Non li salverà nemmeno la nuova iniezione di denaro UE destinato alla guerriglia informativa: è come finanziare un’orchestra mentre il Titanic di Ursula e Pičernobil affonda.
Risultato inevitabile: una guerra apparentemente “europea” scivola definitivamente fuori dalle mani dell’Europa.
A tutto questo si sovrappone la “desperatio” del riarmo europeo, un fenomeno che non appartiene alla sfera della strategia ma a quella della psicologia storica, in una chiave molto patologica. L’Europa tenta ora, tardivamente e in modo maldestro, di presentarsi come polo armato proprio nel momento in cui ha già subito una deindustrializzazione strutturale: la filiera energetica compromessa, l’hardware industriale amputato, la ricerca drenata altrove, la dipendenza totale da “supply chain” e tecnologie americane, senza materie prime.
Il riarmo europeo non è né carne né pesce: è semmai una mobilitazione retorica che arriva quando il ciclo materiale è finito. Le industrie belliche che si vorrebbero ricostruire sono ormai “offshorizzate”, mentre i bilanci pubblici vengono spinti verso un deficit che vorrebbe ostentare potenza, ma dimostra già ora solo un simulacro di potenza, grottesco nella postura ma drammatico per come mette sotto una luce livida il futuro di tanti popoli.
Si tratta, in sostanza, di un riarmo senza industria, di un portamento militare senza autonomia strategica, e dunque di un’Europa che tenta di recitare il ruolo di attore globale quando è stata già retrocessa a mero teatro di operazioni, a trincea in cui usare alcune coorti di giovani come materiale di consumo. Viva la Leva, recitano i No Pax e altri farabutti.
Il risultato è un paradosso: più l’Europa si arma, più dimostra la propria irrilevanza, perché lo fa inseguendo agende decise altrove e senza alcuna capacità di negoziare il proprio destino.
È per pesare, dicono, dopo che hanno perso tutto il peso.