C’è qualcosa di profondamente rivelatore nel modo in cui Carlo Calenda ha scelto di attaccare Angelo d’Orsi: non certo usando argomenti, non con un confronto storico (figuriamoci, poveretto), non con un’idea migliore, ma con la scomunica morale, il marchio infamante: INDEGNO.
Una parola che non dice nulla sul pensiero del Professore, ma dice moltissimo su chi la pronuncia.
Dare dell’«indegno» a un intellettuale che ha dedicato una vita allo studio, alla ricerca, alla critica dei poteri, beh, questo sì che è un atto indegno. È un tentativo di togliere dignità, cioè di colpire la persona prima ancora della sua idea. È un vecchio trucco della politica più rancorosa: quando non puoi confutare, delegittimi. Banale, anche, come trucco. Ma se c’è gente che ti pompa su tutti i media, sebbene tu abbia da offrire solo il sottovuoto spinto di ‘Slava Pariolini’, finisci per saturare il dibattito e infangare comunque le persone libere.
Calenda prende una frase decontestualizzata di d’Orsi, la strappa dal suo significato reale (una critica al paragone grossolano fatto dall’inquilino del Quirinale tra Russia odierna e Germania nazista) e costruisce intorno un teatrino moralistico: i morti, i cimiteri, la memoria profanata… Tutto pur di non dire la verità: che la storia non si piega agli espedienti da social dei No Pax, e che un Presidente della Repubblica può anche sbagliare un paragone senza che i cortigiani debbano lanciarsi nella caccia all’eretico.
La dignità non è un gingillo per influencer politici, per quanto effondano sfiga da ogni poro.
La dignità non la definisce Calenda, non la distribuisce Calenda, non la toglie Calenda.
È la stessa logica dello “Scudo per la Democrazia” che l’UE propone come protezione, ma che in realtà è un apparato di normalizzazione del dissenso. Un sistema che divide le opinioni in “resilienti” e “inquinanti”, che finanzia solo i media che ripetono la linea ufficiale, che trasforma la libertà di pensiero in una pratica a rischio.
In questo clima Calenda, anziché discutere, emana bolle tatuate.
Lungi dall’argomentare, espelle i nemici dal consesso dei “degni”.
Anziché confutare con argomenti equilibrati, marchia. Certi neofiti dei tatuaggi vorrebbero marchiare tutti, e chi li ferma più?
La bolla mediatica pompata dalla peggiore stampa dell’Occidente, quella nostrana, lo fa con un linguaggio sempre più vicino a quello dei controllori della verità: “cattivi maestri”, “indegni”, “pericolosi”, “da isolare”.
È esattamente così che inizia ogni stagione di censura: più ancora che con una legge, con un intervento cocciuto e antidemocratico sul vocabolario.
Quindi va ribadito: la dignità appartiene a chi pensa, a chi studia, a chi argomenta, a chi non rinuncia alla complessità per inseguire un applauso facile.
E se c’è qualcosa che davvero profana la memoria – proprio quella delle guerre, dei morti, delle tragedie europee – è ridurla a manganello retorico per zittire uno storico.
Angelo d’Orsi non è “indegno”.
Indegno è usare la storia come propaganda e il dibattito pubblico come gogna.
La dignità, quella vera, sta da un’altra parte.
E chi la riconosce, non ha bisogno di scriverla in giallo a caratteri cubitali.