Sardicidio?

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Negli ultimi mesi ho avuto la sensazione di attraversare la mia isola con lo stesso tocco pietoso di chi percorre un corpo ferito. Le notizie, le manifestazioni, le dichiarazioni, le denunce che sembravano separate β€” la glaciazione demografica, le servitΓΉ militari, gli assalti speculativi fotovoltaici ed eolici, il silenzio della politica β€” hanno cominciato a disegnare un unico profilo, come tracce di un’unica emorragia.

CiΓ² che emerge non Γ¨ una semplice somma di vertenze, ma un quadro d’insieme, e questo quadro dice una cosa terribile: la Sardegna Γ¨ una nazione morente. Non nel senso retorico delle bandiere, ma in quello concreto dei numeri, delle terre vendute, delle lingue che tacciono, dei paesi che si spengono, dei pesi che si spostano nella bilancia del mondo.

Si sono espressi in tanti, ma richiamo in particolare due voci. Cristiano Sabino e Mauro Pili, diversissimi per temperamento e percorso, rappresentano due forme della stessa inquietudine. Nei loro toni opposti β€” l’uno riflessivo, l’altro tribunizio β€” si riconosce lo stesso istinto di autodifesa di un popolo che sente di essere espropriato in tempi spaventosamente brevi.

Sabino parla di β€œsardicidio”, e adopera un lessico lemkiniano, da genocidio culturale: distruzione non cruenta ma sistematica delle condizioni di vita collettiva. Pili racconta la danza delle multinazionali che guardano alla Sardegna con uno sguardo predatorio, descrive il β€œsacco ucraino”, con gli elicotteri degli oligarchi che atterrano nei campi, la colonizzazione energetica, la complicitΓ  della giunta.

Apparentemente lontani, in realtΓ  descrivono due facce della stessa dinamica di spossessamento: quella che ci toglie il diritto a restare e quella che ci nega il diritto a decidere. Le feste sontuose e trimalcioniche degli yacht degli oligarchi ucraini nei porti sardi non possono lasciarci tranquilli. Un anno fa l’ex generale statunitense Michael Flynn ha lanciato accuse esplosive, affermando di disporre di un dossier secondo cui l’Ucraina sarebbe al centro di un colossale sistema di riciclaggio che inghiotte i miliardi elargiti dai contribuenti occidentali e arricchisce investitori spregiudicati che contaminano la politica e l’economia ben oltre il teatro ucraino.

Sul piano lessicale, vale ricordare la critica del ricercatore Andria Pili, ricercatore presso l’Universidad de MΓ‘laga, che ha scritto β€” con argomenti fondati β€” che parlare di genocidio nel caso sardo Γ¨ improprio, poichΓ© mancano l’intento deliberato e la sistematicitΓ  tipica del crimine definito dal diritto internazionale. È un’obiezione seria, che aiuta a mantenere il rigore delle categorie: forse, piΓΉ che di genocidio, dovremmo parlare di colonialismo interno dentro una Repubblica italiana che ha rinunciato per sempre a rimuovere gli ostacoli economici e sociali che limitano la libertΓ  e l’eguaglianza dei cittadini. Dovremmo magari parlare di estrattivismo e di etnocidio culturale.

Ma resta il merito di Cristiano Sabino: aver scelto una parola dirompente che costringe tutti a guardare la gravitΓ  del fenomeno, a rompere l’abitudine e a discutere finalmente di ciΓ² che, sotto nomi piΓΉ anodini, rischia di passare inosservato.

Accanto a queste voci, c’è anche quella dell’avvocato Michele Zuddas β€” indipendentista, tra gli animatori del movimento Pratobello24 β€” che chiama le cose col loro nome: la lotta alla speculazione energetica non puΓ² appaltarsi a una classe politica compromessa e allineata al draghismo, ma esige un ecosistema politico sardo autonomo e coerente, capace di unire la difesa del territorio all’autodeterminazione democratica di questa terra.

Nel mezzo, la politica regionale si limita a gestire i detriti del potere, incapace di un atto di sovranitΓ  che sia uno. Il tempo del β€œsecolo breve” dell’Autonomia speciale Γ¨ scaduto.

Eppure 211mila sardi, una cifra che in proporzione alla popolazione in qualunque paese al mondo rappresenterebbe un evento epocale di partecipazione popolare, hanno firmato la Legge Pratobello ’24, contro la speculazione energetica e l’installazione indiscriminata di impianti industriali. Anche in questo caso, la risposta Γ¨ stata un muro di gomma: il Consiglio regionale non ha voluto nemmeno discutere la proposta.

Viviamo in un’epoca in cui si Γ¨ potuto concepire di β€œrisolvere” la crisi di Gaza non con un trattato di pace, ma con una speculazione immobiliare di alto rango. È un precedente, mutatis mutandis, che riguarda anche noi: perchΓ© ogni territorio vulnerabile puΓ² diventare teatro di una speculazione geopolitica sotto la bandiera della transizione o della sicurezza.

L’incombente militarizzazione globale, spinta dalle correnti atlantiste che preparano la guerra lunga contro la Russia, sta ridisegnando una nuova divisione internazionale del lavoro. Il mondo viene riorganizzato non piΓΉ secondo il vantaggio comparato della produzione civile, ma secondo funzioni militari e logistiche dei territori. Alcune nazioni diventano arsenali, altre serbatoi di materie prime o di manodopera, altre β€” come la Sardegna β€” zone di servizio: basi, poligoni, corridoi energetici, riserve turistiche, centri dati energivori, all’alba della diffusione dell’Intelligenza Artificiale.

È un ciclone che travolge ogni comunitΓ  e nazione. Crea nuove marginalizzazioni accelerate, spietati rimescolamenti demografici, nonchΓ© la demolizione programmata delle classi medie attraverso strumenti solo in apparenza neutri: algoritmi, burocrazie digitali, regimi di sorveglianza socio-tecnica. Tutto in tempi brevi, con la violenza fredda dell’automatismo.

Dietro la retorica della sicurezza e della transizione, prende forma un ordine disciplinare post-democratico, dove la decisione politica si trasferisce nei cavi, nei satelliti e nelle piattaforme, e i popoli vengono ridotti a comparse di un’economia di guerra permanente.

Nel nostro caso, i simboli concreti di questa trasformazione sono due: il Tyrrhenian Link, il maxi cavo di Terna che collegherΓ  la Sardegna alla Penisola, pensato per esportare altrove l’energia prodotta nell’isola; e la penetrazione dei capitali esteri, come quelli dei magnati ucraini che hanno giΓ  messo le mani su migliaia di ettari di terreni destinati a impianti ad altissimo impatto volti alla mera speculazione energetica.

Tutto ciΓ² avviene nel nome della β€œtransizione”, ma con logiche da conquista. Si svuota l’isola dei suoi abitanti e si riempie di infrastrutture pensate per altri mercati. La Sardegna diventa una piattaforma energetica e militare, non una comunitΓ  da abitare. Il rimanente paesaggio urbano e naturale che si salverΓ  dall’industrializzazione passiva sarΓ  β€œgentrificato” da investimenti immobiliari e nuovi residenti benestanti, causando l’aumento dei prezzi e l’espulsione degli abitanti originari. In sintesi: uno tsunami di infrastrutture turistiche parassitarie che diventa esclusione sociale.

Non si tratta di demonizzare le rinnovabili o le reti, ma di vedere il pattern coloniale che si ripete: il capitale viene, sfrutta, esporta. L’isola resta con i buchi nel suolo e nella demografia. Gli incentivi li pagano i cittadini, i profitti li incassa chi atterra in elicottero o firma da Roma o da Bruxelles.

Questa non Γ¨ transizione: Γ¨ traslazione di ricchezza e di potere.

È un’operazione che agisce su due piani: economico e simbolico. Da un lato, l’esproprio materiale del territorio; dall’altro, la cancellazione della percezione di appartenervi. Il popolo si trasforma in pubblico, e il pubblico in audience.

Forse è per questo che le parole di Cristiano Sabino e quelle di Mauro Pili, pur così diverse, suonano come due campane dello stesso vespro: quello di una comunità che rischia di non sapere più di essere tale.

È inevitabile che, in un contesto drammatico, qualcuno alzi la voce piΓΉ di altri. È sano. L’urlo e l’analisi sono entrambi sintomi vitali: vuol dire che c’è ancora una coscienza che reagisce. Il problema non Γ¨ la differenza di tono: Γ¨ la sorditΓ  di chi dovrebbe ascoltare.

Per questo non basta piΓΉ il registro del commento. Serve una forma teorica e politica di autodifesa, una visione collettiva che tenga insieme ciΓ² che oggi Γ¨ solo intuizione sparsa.

Non serve un nuovo mito, ma una strategia di sopravvivenza nazionale: una pedagogia della terra, del lavoro, dell’autogoverno, dell’energia, della lingua.

Una β€œNazione Sarda” non come retorica minoritaria, ma come progetto di civiltΓ .

Il rischio non Γ¨ un futuro peggiore: Γ¨ non avere piΓΉ un futuro.

E allora sΓ¬, chiamiamo pure β€œsardicidio” il pericolo incombente, se serve a rompere il torpore.

Ma l’obiettivo non Γ¨ il nome della malattia: Γ¨ la cura.

La cura Γ¨ nel risveglio, nella dignitΓ  di una comunitΓ  che non accetta di essere espropriata in silenzio.

La Sardegna Γ¨ ancora viva finchΓ© qualcuno la chiama per nome.

Β 

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