Letta, la tela atlantica

di Pino Cabrasda Megachip.

L’approdo al governo di Enrico Letta ha molti punti di contatto con il viaggio nel potere di Barack Obama.
A molti questo potrebbe apparire come un complimento rivolto a due
campioni progressisti. Per chi obamiano non è, come chi scrive, è invece
la critica a due conservatori impegnati a salvaguardare creativamente gli interessi dell’Impero,
Obama al centro e Letta in periferia. Tralasciamo per ora le scontate
differenze fra USA e Italia, il divario in termini di loro ruolo e peso
internazionale, la diversità dei sistemi politici ed elettorali. Quel
che interessa qui sottolineare è il fatto che un sistema in profonda
crisi di legittimità ha trovato una soluzione “creativa” all’interno
delle proprie classi dirigenti. Gli Stati Uniti erano segnati da un
“impresentabile” come il presidente Bush. In Italia venivamo da un
livello di fiducia nei partiti politici ormai prossimo allo zero. In
entrambi i casi il rimedio è stato covato dalle classi dirigenti
promuovendo un leader relativamente giovane, messaggero di una retorica che necessariamente promette il cambiamento, ma protegge i rapporti di forza esistenti.
Obama vince le elezioni promettendo di stare dalla parte della strada (Main Street), contro la finanza (Wall Street),
ma poi fa il contrario, al netto di qualche concessione secondaria da
sbandierare sui media, fino a riempire l’esecutivo di esponenti di Wall
Street e del complesso militare-industriale. Si fa poi rieleggere
dicendo che gli altri sono peggio.
Letta
raccoglie voti promettendo innovazione e nessun governo con Berlusconi,
ma poi si accorda con lui e accoglie i suoi esecutori nel governo,
assieme a volti nuovi. Anche Letta riesce a contare su quelli che
soccombono continuamente al presunto meno peggio. O
almeno: nel PD funziona strutturalmente così, finché, salasso dopo
salasso, rimarranno soltanto gli ultimi veterani menopeggisti, una
manica di cinici e di poveri illusi.
Per
le cariche istituzionali c’è una certa competizione all’interno delle
élites, con strategie diverse, sgambetti, trame, giravolte, cordate di
potere contrapposte, contestazioni reciproche, ricatti. Gli oligarchi
giocano la loro partita in mezzo alle masse, e le associano, cercando di
inquadrare interessi diffusi di milioni di persone dentro le battaglie
di pochi potenti. La manipolazione mediatica è lo strumento principe in
questa partita. Interi spezzoni del sistema politico un tempo riuscivano
a sottrarsi in parte al gioco, e gli interessi popolari non erano senza
peso negoziale e politico. Negli ultimi decenni la cooptazione di vaste
componenti semi-autonome della società e del sistema politico si è
invece perfezionata, al punto da non tollerare più nulla che non obbedisca al Pensiero Unico.
Chi non obbedisce vede via via deperire gli strumenti e le relazioni
che rendevano politicamente spendibile la sua autonomia. In questo
deserto, rimangono in piedi gli strumenti e le relazioni della nuova tecnopolitica,
le reti di cui Letta è certamente un primatista. Per molti
l’alternativa è essere assimilati o non trovare nessun luogo politico
dove stare.
Anche
il più sofisticato network di potere non riesce tuttavia a convincere
enormi porzioni dell’elettorato a farsi rappresentare dai suoi avatar,
soprattutto durante una crisi sistemica che sconvolge
la società e l’economia. Negli Stati Uniti la larghissima voragine dei
non rappresentati è più facilmente neutralizzata perché non vota o
perché le sue proteste (come Occupy Wall Street) non puntano a scalfire
il gioco politico alle elezioni. In Italia però è accaduto qualcosa di
diverso: la formidabile spallata elettorale del Movimento Cinque Stelle guidato da Beppe Grillo è stata talmente aggregante da aver ricostituito un grande polo di opposizione, molto più vasto e variegato del nucleo militante del M5S.
La creatura politica di Grillo e Casaleggio ha i gravi limiti
che più volte abbiamo sottolineato, in molti articoli su queste pagine.
Ha il problema di dover maturare in fretta per contribuire a una grande
alleanza di forze politiche alternative in seno al popolo italiano, mentre i tempi della crisi galoppano e non aspettano i balbettii tattici e le lacune culturali e strategiche di Vito Crimi & Co..
Nondimeno, la sola presenza di questo coagulo di opposizione ha fatto crollare per sempre tutti gli alibi della sinistra istituzionale italiana.
Quella sinistra stava semplicemente gestendo un eredità derivante dai
decenni in cui aveva schierato vaste forze popolari, i tempi in cui
aveva vasti margini di autonomia, programmi propri, grandi spinte
intellettuali, una propria idea di geopolitica, una sua coscienza degli
interessi nazionali. Per due decenni quel patrimonio storico è stato
usato dai dirigenti della sinistra in funzione sempre più subalterna:
hanno guidato milioni di persone sotto l’ala di altri centri di potere
che avevano e hanno una loro fermissima agenda “atlantica”.
Mentre le forze un tempo antioligarchiche non studiavano più nulla e
smantellavano ogni luogo in cui avrebbero potuto formare un proprio
pensiero autonomo, l’oligarchia atlantica si incuneava profondamente nel loro campo e lo egemonizzava, fino ad assoggettarle.
Il vecchio patrimonio è ora totalmente dilapidato. Il maestro di Letta,
Beniamino Andreatta, faceva studiare suo figlio Filippo all’Atlantic College.
Altri si legavano a istituzioni analoghe. Uno per uno, i rampolli
stavano dentro strutture legate al nucleo vero del potere transnazionale
dominante.
Perciò le lobby lettiane non hanno quasi nulla di misterioso. L’Aspen Institute, VeDrò, la partecipazione alla Commissione Trilaterale, la cooptazione alle riunioni del Club Bilderberg,
gli accademici che ovunque diffondono il Verbo Atlantico e le fesserie
teoretiche sul nesso fra austerità e crescita economica, tutte queste
relazioni sono reti solide in mezzo a un oceano di dispersione.
In quell’oceano le proposte alternative non raggiungono massa critica, e
in troppi si perdono nelle illusioni di ricostituire la sinistra senza
fare i conti con le vere cause del suo disastro. Basti pensare ai tanti
abbagli in sono incorsi i Godot che attendevano inutilmente una qualche
riformabilità del PD. Una generazione perduta.
Nulla di misterioso nell’arroccamento del potere nel corso della crisi: è il momento in cui contano solo i rapporti di forza
e non sono tollerati esperimenti che possano minimamente mettere in
discussione l’agenda atlantica e il pensiero unico della rapina europea.
L’unica realtà dirigente rimasta nel campo della fu-sinistra è perciò
legata mani e piedi alla ragnatela politica di Letta e simili. I
presunti dissensi dei parlamentari durano lo spazio di qualche tweet, e
il gregge torna a testa bassa a votare la fiducia, anche se sa che
perderà un mare di voti.
SEL si agiterà fuori dal PD, ma non ha grandi potenzialità espansive. Figuriamoci un Civati, dentro il PD.
Intendiamoci, anche Giuliano Amato era un grand commis della tela washingtoniana e londinese. E Romano Prodi era “chairman
del Bilderberg, e via elencando. La novità, con Letta, è che ora non
c’è più nient’altro in grado di porsi all’altezza di quei network.
I partiti, i sindacati e altre formazioni sociali si permettevano di esercitare una semisovranità, qualche libertà d’azione sub-dominante. Ora non più, e perciò non c’è più sovranità alcuna.
Non
c’è più nemmeno la cauta subordinazione di quando c’era la DC – quando
si percorrevano anche certe vie detestate dalle capitali atlantiche
importanti – in virtù di interessi che non si voleva liquidare: l’Italia
aveva una sovranità limitata, ma non nulla.
Basta scorrere l’elenco dei ministri chiave del governo Letta per capire che adesso il blocco atlantico è il cuore della coalizione.
Questo implica un risvolto da non trascurare. Sia prima dell’attacco
alla Jugoslavia nel 1999, sia prima dell’aggressione alla Libia nel
2011, le instabilità del sistema politico italiano furono rapidamente
regolate da un via vai di parlamentari che si collocavano in modo
“innaturale” rispetto ai loro riferimenti. Tutto serviva a rinsaldare il
quadro politico per fare meglio la guerra, una guerra decisa altrove.
Le occasioni di guerra non mancano nemmeno stavolta.
Perciò l’urgenza di costruire un blocco sociale e politico alternativo,
con una sua proposta di governo, è un compito storico di importanza
capitale. La tela c’è, ma va rafforzata, perché quelli non scherzano
mica, e a chi rimane troppo liquido, se lo bevono.

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