𝑁𝑜𝑛 𝑒̀ 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑢𝑛 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑖𝑛𝑒𝑛𝑡𝑒: 𝑒̀ 𝑢𝑛 𝑔𝑖𝑎𝑐𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑖𝑛 𝑑𝑖𝑠𝑚𝑖𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒, 𝑠𝑜𝑟𝑣𝑒𝑔𝑙𝑖𝑎𝑡𝑜 𝑑𝑎𝑖 𝑠𝑢𝑜𝑖 𝑠𝑡𝑒𝑠𝑠𝑖 𝑑𝑒𝑚𝑜𝑙𝑖𝑡𝑜𝑟𝑖.
Ci raccontarono in mille modi che l’allargamento a Est avrebbe reso l’Europa più grande, più unita, più forte. Un continente finalmente riunificato dopo il Novecento delle frontiere e dei muri. Sembrava l’alba di un nuovo equilibrio, e invece fu l’inizio del suicidio geopolitico dell’Europa.
Dietro i brindisi di Bruxelles c’era un disegno più antico: inglobare Stati che ragionavano in chiave russofoba, per saldare definitivamente il destino europeo agli Stati Uniti. Un’integrazione apparente che in realtà consolidava la subordinazione. Le élites economiche europee accettarono quel compromesso con entusiasmo. Avevano intravisto un vantaggio immediato: la forza lavoro a basso costo dell’Est come cavallo di Troia per comprimere i salari interni e raffreddare l’inflazione.
Per qualche anno l’ingranaggio parve perfetto. Le imprese producevano, le statistiche sorridevano, e a Bruxelles si cantava il successo del “mercato unico”, mentre i Paesi nordici umiliavano i Paesi “sudici”, convertendo il dominio economico in dominio morale.
Chiaramente, non era progresso: era dumping sociale travestito da integrazione. Era l’avvio di un processo che disgregava le basi materiali della cittadinanza in tutta la UE. Eppure, Prodi ancora gongola.
Alla fine, il meccanismo si è fracassato. La rottura con la Russia, la fine del flusso di materie prime a basso costo e l’aumento dei costi energetici hanno svelato la verità: il capitalismo europeo non produce più ricchezza reale. Vive di rendite, di capital gain finanziari, di scommesse sui derivati che durano solo finché regge il dollaro.
Il capitale produttivo si è liquefatto nella finanza, e la politica è diventata la sua maschera. Stellantis ne è l’emblema: il capitale produttivo si è disfatto della produzione, ma non del potere, sempre più apolide.
Nelle porte girevoli delle funzioni apicali delle istituzioni europee e delle cancellerie degli Stati vediamo transitare gente che sta con BlackRock, con i Rothschild, con Goldman Sachs, con gli avvocati della City. Ecco perché le élite europee oggi non fuggono la guerra: la inseguono.
Si dirà: è follia. No, è istinto di sopravvivenza. Il riarmo e la cultura della guerra servono a legare gli Stati Uniti al continente, a impedire qualunque disimpegno concordato con Mosca che sancirebbe la marginalità definitiva dell’Europa.
È l’ultima colla per tenere insieme un edificio che altrimenti crollerebbe di botto. Così l’Europa, da presunto progetto di civiltà, è diventata una miniera a cielo aperto. Le sue classi medie, i risparmi, la conoscenza, il lavoro, perfino il patrimonio culturale sono trattati come giacimenti da sfruttare finché c’è qualcosa da estrarre. Le élite europeiste trattano i popoli come miniere da svuotare in fretta: il valore accumulato in generazioni durerà una sola generazione.
Rappresentanza? Zero. Il loro mestiere è manipolare e stroncare il dissenso. Non è una teoria: basta misurare l’astensionismo e la popolarità finta dei leader. Basta vedere quante misure liberticide e quanti attacchi contro le forze politiche scomode al sistema stanno architettando. Votano ormai soprattutto i clienti del sistema.
L’importante è restare nel punto della catena alimentare dove arriva ancora un frammento di ricchezza.
Dicono di essere nati dalla rimozione del muro di Berlino, ma ora si proteggono con il muro di Kiev. Dopo di loro, le macerie. E sopra quelle macerie tenteranno di raccontarci ancora – come un Mattarella o un Draghi qualsiasi –che “la sovranità europea è il nostro destino”.