L’onda araba e il nuovo disordine mondiale

di Pino Cabras – da Megachip.

Alcune riflessioni sui fatti nuovi in Libia, in Siria e in altri paesi: cercheremo di sgarbugliare importanti informazioni distorte, documentandoci anche con alcuni terribili video. L’onda araba non è ordinata come piacerebbe ai media. Quotidiani e telegiornali fanno a gara per presentare schemi semplici, con cui rinfrancare la buona coscienza democratica: noi siamo quelli della libertà, e ci sdegniamo con barbari e dittatori. Facile, no? È invece un’idea irriflessiva, per giunta falsa e ipocrita (perché a certi dittatori, amici dei portafogli occidentali, lasciamo fare di tutto).
Ma è pur sempre il discorso politico che spicca su tutti gli altri dal grande rumore di fondo dei media. Si rinuncia a distinguere fra un paese e l’altro, né si pensa alle conseguenze di un atto, specie un atto di guerra, tanto meno si fanno valutazioni realistiche delle forze in campo, dei problemi, degli intrecci etnici. Così, però, non si va da nessuna parte nella comprensione dei fenomeni, e infatti la crisi si presenta con scenari imprevisti che fanno a pezzi ogni credibilità delle narrazioni occidentali. Libia e Siria lo dimostrano.
Il disastro Libia
Puntiamo su Bengasi, allora. L’armata dei ribelli libici è stata fin dall’inizio presentata come una schiera di combattenti adamantini che si battevano per la libertà e la democrazia in nome dei nostri stessi valori di fondo. I media più importanti tacevano le loro azioni da tagliagole e le loro sconcertanti alleanze con le peggiori milizie di fanatici suicidi dell’islamismo estremista. Oggi l’imbarazzo dei media è enorme, al punto da nascondere il disastro della Cirenaica, un caos che vede sbriciolarsi lo schieramento dei ribelli, rende velleitaria qualsiasi loro ambizione strategica, e li fa totalmente dipendere da un massiccio intervento coloniale della NATO, senza apprezzabili consensi nel territorio da “liberare”, anzi.
La pressione che può esercitare la superiorità tecnologica delle potenze coloniali è ancora sufficiente a impedire a Gheddafi di ricostruire un ordinamento nazionale sull’intero suolo libico. Eppure siamo già certi che nessun ordinamento potrà essere imposto dall’Occidente, che – al contrario dei libici anticoloniali – è privo ormai di qualsiasi limpidezza strategica e non potrà mai vincere questa guerra, nonostante il vanaglorioso frasario da Sturmtruppen del segretario generale della NATO, Fogh Rasmussen, che da mesi ogni giorno vede la vittoria all’orizzonte del giorno dopo. Rasmussen si fida dell’uranio impoverito, si fida dei bombardamenti – umanitari, s’intende – che polverizzano i potabilizzatori dell’acqua e i ripetitori tv, gli ospedali e le famiglie dei dirigenti libici.
Aumentando la sua pressione, tuttavia, la NATO potrà solo “somalizzare” la Libia, cioè trasformarla in un ennesimo e incontrollabile “stato fallito”, percorso da milizie, deturpato, esposto a ulteriori emergenze umanitarie. È quel che in parte è già avvenuto, e la responsabilità – sia chiaro – non è di Gheddafi, ma di quel signore che passa le vacanze in Toscana con una faccia ritenuta rispettabile e democratica, quel David Cameron primo ministro britannico. Ed è responsabilità del portabigodini di Carlà. Nonché di quell’instancabile manipolatore di Barack Obush. Per non parlare del Caimandrillo che ci tocca in sorte dalle nostre parti. I civili muoiono ogni giorno, intanto. E chissà quanti ne moriranno nei prossimi anni per i veleni sparsi dai missili della NATO. Niente male per una missione che doveva impedire un’emergenza umanitaria.

La destabilizzazione della Siria
Lo schema si sta ripetendo per la Siria. Quella siriana è una società che a lungo ha compresso i suoi i conflitti latenti e palesi, i punti di frizione, il delicatissimo miscuglio etnico, le aspettative economiche. Su questi punti di frizione si sono innestati i disordini degli ultimi mesi.
Non ci sono dubbi sul fatto che le rivolte siano dovute a una grave insufficienza delle istituzioni, né c’è da dubitare che vengano alla luce perché sono affluite nuove generazioni più che mai in grado di fare confronti e capaci di rivendicare giustizia e cambiamento. Come pure è chiaro che le rivolte si inaspriscono per via dall’assenza di meccanismi di rappresentanza delle istanze di protesta e di critica rispetto al regime modellatosi sulla famiglia Assad. Possiamo anche dire che sembra arrivare drammaticamente fuori tempo la spinta del presidente siriano a «costituzionalizzare» il dissenso. Lui fa conto su una maggioranza reale che lo sostiene ancora, ma la crisi economica figlia della destabilizzazione si mangia pezzo dopo pezzo quel consenso di massa. Regge ancora uno specifico timore che domina i pensieri di milioni di siriani: il timore che la democrazia che qualcuno vorrebbe impiantare a Damasco somigli troppo a quella del vicino Iraq, ossia un cataclisma di violenza e insicurezza. I siriani hanno ospitato milioni di iracheni in fuga, e sanno dunque di cosa si tratta.
Il dramma è in corso, ma ha forse senso esporlo come una faccenda di mostri da sbattere in prima pagina? Andrebbe spiegato con pazienza a tutti i direttori dei giornali e dei TG che Bashar al-Assad non va visto attraverso le lenti della reiterata, stupida, ipocrita “reductio ad Hitlerum” con cui l’Occidente vuole sempre bruciare e “mostrificare” i politici sgraditi intanto che preserva i propri stragisti. Bashar è semmai un uomo politico che sino a poco fa era al centro di tanti equilibri e di tanti “crocevia della stabilità” in una regione di ferro e di fuoco, mentre ora non trova molte sponde internazionali che gli possano far trovare soluzioni, una volta che le manifestazioni assumono un carattere violento, ricambiate dalla reazione repressiva sproporzionata di un potere impreparato a gestire questi conflitti.
Il regime siriano ha provato a imbastire riforme troppo tardive rispetto alla portata del sommovimento geopolitico che è arrivato a interessare anche quel paese. Milioni di siriani gli hanno creduto. Ma queste riforme non hanno trovato appoggio in Occidente, che al contrario dà sponda e sostegno all’opposizione, nei media e sul campo. Non fa bene ad Assad come non ha fatto bene a Gheddafi lasciare che i loro paesi fossero gli unici stati mediterranei al di fuori del dispositivo militare della NATO.
Nei media il sostegno riprende lo schema ‘libertà contro dittatura’, con l’accanimento monocorde di quando si fa molto sul serio e i redattori capiscono subito dove va la corrente. L’intero mainstream occidentale, anche sulla Siria, è una sorta di monolite che adopera un solo standard, un’intelaiatura che si presenta simultaneamente linguistica, mentale, temporale e pratica: il pensiero unico blindato nel messaggio unico, non importa quanto svilito dalle falsificazioni.
Quanto all’intervento straniero sul campo, mettiamola così: l’eventualità che potenze straniere vicine e lontane non c’entrino nulla, da sole o perfino insieme, è davvero molto bassa. Assistiamo alle azioni di milizie armate, che compiono operazioni di una certa complessità militare, agguati, azioni contro caserme. Anche se ci sono molti civili che protestano in modo pacifico, è riduttivo definire «civili» gli autori di certe operazioni, con buona pace delle cronache basate sull’emozione più manipolata. I «civili» non portano armi, e quindi non dovrebbero essere attaccati da nessuno, compresi gli insorgenti antigovernativi. Ma se la parola «civile» equivalesse a «combattente» che si dota di armi – comprese le armi pesanti – contro un governo sovrano fornito di legittimazione, non è immaginabile che un esercito regolare si arrenda a questa tipologia di «civili», ne tolleri senza risposta gli assalti militarizzati; e infine capitoli a una sicura disfatta. Non conosciamo alcuno stato che lo farebbe.
I risultati degli scontri in Siria sono drammatici, e si combinano con le risposte ondivaghe di un regime non privo di divisioni e ancora incerto fra bastone e carota intanto che il tempo gli gioca contro.

La situazione sul campo
Veniamo dunque alle novità di questi giorni, gli stessi giorni in cui le stragi perpetrate dai cirenaici in Libia sono riassunte in pochi trafiletti, la brutale repressione in Bahrein e Yemen neanche in due righe, e perfino lo sgombero delle piazze del Cairo da parte delle truppe speciali affoga nell’indistinto.
Un sito filo-siriano in francese, InfoSyrie.fr, analizza in dettaglio la mole di nozioni sui disordini siriani diffuse dai media mainstream. In un articolo da significativo titolo «Hama: le cifre inverificabili e il coro delle vergini occidentali», il sito francese parte proprio dalle dichiarazioni più solenni:
«Ban Ki-moon, segretario generale dell’ONU, esprime una condanna “vigorosa”, Barack Obama è “inorridito”, Alain Juppé [ministro degli esteri francese] esprime la sua “vibrante preoccupazione”, Roma parla di “atto orribile” e domanda che la questione venga deferita al consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, Berlino promette nuove sanzioni, Ankara esige che Damasco ritiri l’esercito».
Quali sono le cause di questa comune emozione diplomatica, che in Italia hanno portato persino a richiamare l’ambasciatore a Damasco? «Domenica 31 luglio, le truppe siriane sono entrate ad Hama, la grande città nel nord-ovest del paese, per ristabilirvi il controllo della situazione dopo che migliaia di manifestanti dell’opposizione tengono da alcune settimane la città in uno stato di insurrezione più o meno latente. L’intervento avrebbe causato un centinaio di morti – 95 per la precisione – e decine di feriti tra la popolazione, la quale aveva manifestato venerdì – giorno di preghiera e di raccolta dei manifestanti, indicati nel numero di 500mila – contro il regime di Bashar al-Assad. E, in modo da identificare meglio l’unicità dell’evento per renderlo subito emotivamente riconoscibile dal pubblico, i media l’hanno ribattezzato come il “massacro del Ramadan”».
Quali osservazioni fare in proposito? Siamo di fronte a cifre impressionanti e non verificabili di morti e manifestanti, e sentiamo regolarmente che la violenza viene imputata al solo esercito siriano. Il tutto somiglia come una goccia d’acqua allo schema delle settimane che precedettero la guerra di Libia, quando le cifre sui morti erano pompate, si parlava di fosse comuni inesistenti, e si diffondevano decine di altre bugie. InfoSyrie.fr elenca alcuni semplici elementi per criticare l’impalcatura del “messaggio unico”. Non sono cronache dal Regno del Male, sono spunti di parte, ma sono spunti ragionevoli. Vediamoli nella traduzione integrale curata da Simone Santini:

«La totalità delle stime e delle cifre su vittime e manifestanti anti-Bashar, ad Hama come altrove, proviene dai «cyber-dissidenti» che si trovano all’estero e che si appoggiano, a loro dire, su tutta una rete di corrispondenti locali equipaggiati di telefoni, di cui il meno che si possa dire è che possiedono – aldilà delle magie satellitari – una reattività capace di sfidare le leggi dello spazio-tempo! La fonte più citata dalle agenzie di stampa e dai media occidentali è Rami Abdel Rahmane e il suo «Osservatorio siriano dei diritti dell’Uomo», sulla cui identità aleggia un fitto mistero (si veda l’articolo “Ma insomma chi è – e dove si trova – Rami Abdel Rahmane?”,). Ma su questi argomenti sono degni di “fiducia” anche un certo Ammar Qurabi e la sua Organizzazione nazionale dei diritti dell’Uomo, senza dimenticare Abdel Karim Rihaui e la Lega siriana dei diritti dell’Uomo, nonché Wissam Tarif, rispettabile corrispondente siriano – dall’estero – del gruppo di pressione americano Avaaz (si veda I super poteri del sig. Wissam Tarif”).
Tutte associazioni che si dividono il mercato dell’indignazione e dei comunicati e di cui risulta arduo apprezzare la rappresentatività, l’obiettività nei loro rapporti, e addirittura dove si trovino.
Tutte associazioni che, come notato da uno dei nostri visitatori, non sono in alcun modo affiliate alla ufficiale “Federazione Internazionale dei Diritti Umani”, fondata nel 1922 e composta da 164 leghe “omologate” e operative nel 2010 in più di 100 paesi. Viene da credere che la difesa dei diritti umani sia diventata, per una serie di siriani (ma che non si trova necessariamente in Siria), uno strumento di promozione personale…»

Pensiamo un istante a queste riflessioni, e confrontiamole con i titoli di «Repubblica» e di «Le Monde» del 22 luglio 2011: “Hama e Deir ez-Zor – 1.200.000 dimostranti”.
Questa informazione doveva far suonare grandi campanelli d’allarme, visto che la città di Hama non raggiunge i 700mila abitanti. Per quanto ci possano essere margini di errore e non sia cosa semplice poter contare la gente in piazza, questo è un caso di patente disinformazione.
Un conto sono 500mila dimostranti, che possono mettere in ginocchio qualsiasi governo, altra cosa sono 10 o 20 mila persone, che incidono molto di meno e hanno un significato politico molto diverso. Le foto sono impietose nel ridimensionare la fiumana di oppositori.
«Ci sono, con tutta evidenza, dei morti ad Hama, così come altrove» – evidenzia InfoSyrie.fr – «ma il loro numero è sistematicamente esagerato e addossato esclusivamente alle sole forze armate. L’agenzia ufficiale siriana Sana afferma da parte sua che i soldati siriani hanno affrontato a Hama, domenica 31 luglio, dei gruppi armati che avrebbero fatto almeno due morti tra i militari. Questi gruppi avrebbero eretto barricate e dato alle fiamme delle stazioni di polizia. Sana cita inoltre la testimonianza di un abitante secondo cui «decine di uomini organizzati in bande armate sono attualmente appostate sui tetti dei maggiori edifici della città, sono armati di fucili mitragliatori e terrorizzano la popolazione sparando senza tregua». Propaganda? Non esiste in ogni caso alcuna seria ragione per accordare meno credito alle affermazioni governative rispetto quelle di oppositori risoluti ad infangare il più possibile, dall’estero, il potere siriano. E per quanto riguarda l’esistenza ad Hama di cecchini appartenenti all’opposizione armata, rinviamo al video che abbiamo messo on-line il 20 luglio scorso e che mostra senza possibilità di dubbio un poliziotto siriano cadere vittima del fuoco “nemico” (http://www.infosyrie.fr/actualite/groupes-armes-la-preuve-par-limage/).»

[Attenzione: immagini che possono urtare profondamente la vostra sensibilità]
 

Mentre abbiamo già avuto buon gioco a documentare tecnicamente la falsità di un video che mostrava la presunta morte in presa diretta di un ragazzo che filmava un cecchino del regime, qui proponiamo invece un video difficilmente contestabile, che descrive in modo atroce la situazione sul campo in Siria. Sono immagini crude che non sono certo circolate nel mainstream occidentale, ma in Siria e Russia sì.

Anche se sconsiglio vivamente ai più sensibili di guardare questo prossimo video, lo propongo comunque per comprendere bene che le violenze perpetrate contro persone che appoggiano Assad da una parte degli insorti di Hama – legati ai Fratelli musulmani – cambiano totalmente la lettura degli eventi.

Sono mostrati degli uomini che estraggono dal cassone di un pick-up almeno sette cadaveri insanguinati, che vengono poi gettati, uno dopo l’altro, da un ponte che attraversa l’Oronte, il fiume che attraversa Hama, la città siriana che per settimane ha fatto da sfondo a violente proteste e disordini. Hama è anche la roccaforte dell’opposizione islamico-radicale della Fratellanza musulmana siriana: è gente che gira armata, e la vediamo bene nel video successivo, che mostra un quartiere di Hama in mano agli insorti. Il filmato si conclude proprio con la vista dei cadaveri insanguinati ammucchiati sul cassone del pick-up.

L’articolo di InfoSyrie.fr prosegue così:
«è irresponsabile – da parte di giornalisti che pretendono di informare i loro lettori – il presentare, in un modo tanto rassicurante quanto inesatto, i manifestanti di Hama come semplici partigiani di una democrazia pluralista all’occidentale. Ad Hama, più che ovunque in Siria, sono i Fratelli musulmani che operano, che hanno in questa città una loro roccaforte storica, sono loro che dominano, per ammissione degli stessi giornalisti occidentali, l’opposizione radicale all’estero al regime siriano. Sono loro che sembrano beneficiare della benevolenza degli americani, che hanno mandato il loro ambasciatore in parata in mezzo ai manifestanti di Hama. Americani sempre pronti a manipolare – come attualmente in Libia – tutto ciò che torna utile ai loro propositi destabilizzatori. E mettendo in sordina o tacendo il ruolo degli islamisti radicali di Hama, i giornalisti di Le Monde, di Libération, di Le Figaro, o del Nouvel Observateur, fanno il gioco – coscientemente? – del Dipartimento di Stato americano che non ha mai rinunciato all’opportunità storica di rovesciare o almeno fiaccare in modo decisivo un potere che si oppone all’asservimento del mondo arabo da parte di Washington e dei suoi alleati, con grande giovamento di Israele. Tutto questo lo abbiamo più volte detto sul nostro sito, ma non temiamo di ripeterlo finché disinformatori, coscienti o strumentalizzati, continueranno a martellare con le loro approssimazioni e menzogne. Obama è “inorridito” da ciò che succede ad Hama? Allora, secondo logica, dovrebbe essere più che sconvolto per quanto le sue truppe hanno fatto in Iraq negli ultimi otto anni, nonché per quanto i suoi indefettibili alleati israeliani compiono da tanto tempo a Gaza, a Gerusalemme Est, in Cisgiordania e nel sud del Libano, fatti e abusi che, al contrario delle “uccisioni” di Hama, sono stati pienamente dimostrati.»
Prima di precipitare in infinito botta e risposta in cui si finisca per tirare fuori tutti gli scheletri dei rispettivi armadi, la prima bonifica concettuale da operare è questa: non si può ragionare della cruciale crisi siriana senza analizzare la realtà sul campo in tutta la sua complessità, in base agli interessi in gioco, alle caratteristiche reali delle forze che si combattono, ai margini di composizione pacifica delle questioni irrisolte, che sono ampiamente inesplorati. Tutte le guerre degli ultimi vent’anni – per non andare più indietro – sono state condizionate da un’iniezione propagandistica di “buoni intenti” impastati con menzogne mediatiche sempre più intrusive e manipolatrici. I progetti imperiali sono stati insaporiti da demonizzazioni senza ritorno. Cosa succede se al Sarkozy che bombarda la Costa d’Avorio non si negano gli ossequi dei media e dei salotti buoni? Cosa accade se nel frattempo contro l’Assad che spinge l’esercito contro le sedizioni si riservano invece solo destini da Hitler? Succede che si assiste all’asfissia degli sbocchi giuridici e degli spazi di trattativa. Accettare passivamente i classici due pesi e due misure significa conformarsi ai parametri della guerra totale. Ossia una logica unidirezionale e prepotente che non vorrà né potrà trovare soluzioni. Sulla Libia l’ONU si è fatta torcere il braccio ed è stata scortata, in ceppi, fino a sconfessare se stessa e il suo statuto, che non ammette l’approvazione da parte della comunità internazionale di qualsivoglia azione militare contro uno Stato sovrano che non stia turbando la pace e la sicurezza internazionale. Per il momento alla Siria e all’ONU è stata risparmiata una riedizione della Risoluzione n.1973, per l’opposizione di Russia e Cina.
Molte frodi mediatiche sono state smascherate nel corso degli anni, ma l’area pacifista non ne ha fatto tesoro, e anzi ha sempre più ceduto all’idea che si debba dare credito alle “ingerenze umanitarie”, in un progressivo cumulo di disastri che pure sta davanti a tutti. Fare sbagli è parte dell’umana natura. Ma questo non può essere un modo per giustificare la ripetizione degli errori, quanto semmai un modo per apprendere dall’esperienza.
La diabolica perseveranza nell’errore non riesce a farsi una ragione dell’allargarsi delle aree del pianeta in cui sino a pochi anni fa i bambini andavano regolarmente a scuola e gli indici di sviluppo umano erano decenti, mentre ora – dopo l’intervento degli “esportatori di democrazia” – l’unica presenza ordinatrice rimasta ha il rombo sinistro dei fuoristrada civili equipaggiati in maniera artigianale con armi pesanti, intanto che sul cielo sfrecciano aerei senza pilota che perlustrano e bombardano. Li teleguida dall’Ohio o dal Nebraska qualche bravo padre di famiglia ai comandi di una remota consolle. Lui serve la sua giornata come un qualsiasi impiegato davanti a uno schermo, e poi la sera aiuterà i figli a fare i compiti. Non sentirà la responsabilità delle stragi consumate a ottomila chilometri di distanza quando lui ha fatto clic. A tutti coloro che abboccano alle indignazioni a comando – magari per l’impulso di “fare qualcosa” – propongo di riflettere su questo realistico scenario, per valutare dove avvenga la vera deresponsabilizzazione, dove stiano i rischi umanitari, in un tempo in cui nemmeno il dio del deficit riesce a calmare il dio della guerra, che intanto si camuffa nella routine democratica.

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Il nuovo libro di Giulietto Chiesa e Pino Cabras, Barack Obush (Ponte alle Grazie, 2011).

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La liquidazione di Osama, l’intervento in Libia, la manipolazione delle rivolte arabe, la guerra all’Europa e alla Cina: colpi di coda di un impero in declino.

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