di Marcello Foa.
Il commento pubblicato in prima pagina sul «Corriere del Ticino» del 5 ottobre sui falsi video di Al-Qa’ida ha avuto una risonanza enorme, per la quale ringrazio i lettori. Non a tutti è piaciuto, com’è normale. Alcuni hanno chiesto dei chiarimenti sulla manipolazione dei video, che sono ovviamente ben lieto di fornire.
Ricordiamo brevemente i fatti: per 5 anni il Pentagono ha stipulato un contratto con una società di PR britannica, la Bell Pottinger, per operazioni di propaganda e di guerra piscologica in Iraq, in cambio di un compenso colossale: 540 milioni di dollari.
Un videomaker, Martin Wells, ha svelato l’esistenza di questo programma al Bureau of Investigative Journalism.
Le attività erano diverse ma le più sensibili erano due, cosiddette di propaganda grigia e nera: la produzione di finti servizi televisivi, poi diffusi alle emittenti della regione, e di filmati di propaganda, che venivano falsamente attribuiti ad Al Qa’ida.
Alcune immagini erano girate in proprio («Mandavamo squadre di operatori a effettuare filmati in bassa definizione degli attentati di Al Qa’ida», ricorda Wells), in altri casi venivano usati filmati esistenti.
La propaganda nera si tramutava in un video in apparenza «di Al Qa’ida» di 10 minuti, inciso su dei CD che poi venivano lasciati furtivamente dai marines durante i raid nelle case e nei villaggi, e dotati di un codice che consentiva di tracciare chi li guardava al computer e di trasmettere l’indirizzo IP tramite Google Analytics. Un’operazione di intelligence, che è stata ripetuta numerose volte.
E qui nascono i problemi. Perché negli ambienti jihadisti sono circolati per anni filmati autentici di Al Qa’ida e altri che sembravano di Al Qa’ida ma che erano stati prodotti dalla società britannica Bell per conto del Pentagono. Filmati che, come ci hanno ripetuto all’infinito gli esperti, solitamente finiscono sul web, nella chat riservate, nei siti dei fanatici islamisti che, ad esempio, il famoso SITE della cacciatrice di jihadisti Rita Katz monitora costantemente, producendo scoop poi ripresi non solo dai media mediorientali ma anche, e talvolta soprattutto, da quelli occidentali.
Ma i video diffusi – nel periodo 2006-2011 – erano davvero tutti di produzione di Al Qa’ida? O ne aveva le sembianze ma in realtà era un’elaborazione del Ministero della difesa americano? E cosa contenevano quei messaggi?
L’inchiesta del Bureau non chiarisce tutti i dettagli. Interpellate, le autorità americane si rifiutano di fornire spiegazioni più precise, ma ammettono che «la Bell lavorava per l’Information Operations Task Force (IOTF), producendo materiale che in parte è stato comunicato alle forze della coalizione citando la fonte e in parte nascondendola». Dunque traendo in inganno non solo i seguaci jihadisti ma gli stessi alleati. E conseguentemente anche i media.
Il Pentagono insiste che il materiale era «truthful» ovvero attendibile o veritiero, ma è ben diverso dall’affermare che fosse vero.
Inoltre l’inchiesta afferma che la società inglese lavorava in un’operazione militare riservata «coperta da numerosi accordi segreti» e che la Bell Pottinger riportava al Pentagono, alla CIA e al National Security Council. Le attività più sensibili dovevano ricevere l’ok del generale Patraeus.
Come ho spiegato nel mio commento, non c’è da stupirsi per queste attività; rientrano nelle attività di intelligence. Il punto è che nell’era della comunicazione globale e di internet non sono limitate al teatro di guerra, ma finiscono per contagiare anche i media in tutto il mondo, influenzando le nostre opinioni pubbliche, che non possono accettare a cuor leggero che un filmato di Al Qa’ida possa essere in realtà una produzione del Pentagono.
Non dopo aver avuto la prova che la guerra in Iraq contro Saddam Hussein è stata proclamata sulla base di accuse inventate. È una questione di credibilità; e quella americana, purtroppo, è da tempo fortemente incrinata.