Siria, prima che spari la “tecnica”

di Pino Cabras e Simone Santini – da Megachip.

 

Quanto
è spesso, l’involucro che protegge la nostra fragile normalità? Fino a
un certo giorno abbiamo un lavoro o abbiamo speranze di ottenerlo,
abbiamo scuole, acqua potabile in casa, l’elettricità, e poliziotti e
giudici sì imperfetti ma guai a non averli. E fino a quel giorno abbiamo
anche ospedali, abbiamo strade più o meno sicure, e una pensione che
forse ci basterà a non cenare soltanto con caffellatte e un misero
biscotto per tutti gli anni del nostro inverno. Quant’è spesso
quell’involucro, il giorno in cui, al posto delle autorità normali,
quelle dello Stato, l’unica presenza visibile di una qualche autorità è
la “tecnica”?  Soprattutto, cos’è la “tecnica”?
No, non ci stiamo riferendo a Monti e Papademos, anche se questo inizio poteva farlo credere.
La “tecnica” di cui parliamo non è la tecnica comunemente intesa, è il nome di un tipo di oggetto ben preciso
che ci è stato mostrato tante volte, negli ultimi anni, nelle cronache
di guerra, ma che aveva un nome solo per chi lo usava e per pochi altri.
È un manufatto che rappresenta bene il degrado che attende gli stati
falliti. Li abbiamo visti, in Somalia e in altri disgraziati paesi
africani, e poi in Afghanistan e in Iraq, e da ultimo in Libia, questi
oggetti particolari. Una “tecnica” (in inglese technical) è un tipo di veicolo militare low cost,
un micidiale accrocchio composto da un mezzo civile con un cassone
(tipicamente un pick-up) attrezzato con armi pesanti, quali lanciarazzi e
grosse mitragliatrici. È spaventosamente efficace e distruttivo.
toyota coloregiottaGli hanno dato anche altri nomi: gunship, guerrilla truck, battlewagon, gunwagon. Noi continuiamo a chiamarlo con il nome che ne battezzò la comparsa in Somalia.
Guardiamolo
bene, fissiamocelo in testa, quel veicolo. Quando la “tecnica”
scorrazzerà nelle nostre strade di sempre, in slalom tra le macerie,
l’involucro della nostra normalità sarà stato già frantumato. La
disoccupazione sarà dilagante, le scuole già distrutte, i
potabilizzatori e le reti idriche costruite in generazioni saranno
poltiglia, l’elettricità arriverà poche ore al giorno, la sanità sarà un
ricordo, le pensioni una chimera. E perfino il povero caffellatte del
nostro inverno cui ci aggrapperemo per sopravvivere sarà inquinato,
perché le guerre asettiche esistono solo nei videogame, mentre le guerre
vere sono eventi ambientali distruttivi.
Se
avremo la disgrazia di pregare in modo “sbagliato”, dovremo perfino
andarcene via, chissà dove e chissà come, a milioni. I luoghi di culto
sbagliati, come tutti i nostri luoghi sbagliati in cui facevamo
comunità, saranno stati rasi al suolo dagli unici ragazzi che trovano un
buon lavoro, i picciotti esaltati e giusti delle tecniche, tanto
innamorati dei loro oggetti da tatuarsi il marchio della Toyota nei loro
avambracci, come già fanno in Afghanistan e in Iraq. E non ci sarà
nessun giudice a proteggerci, nemmeno quello di uno stato oppressivo e
corrotto, ma non digiuno di leggi. L’unica autorità visibile risiederà
sulla canna dei mitragliatori delle tecniche. Le monete che ci suderemo
saranno cartacce da borsanera, che prenderanno il volo verso i boss e
verso l’unica autorità che sovrasterà i signori della guerra locali, una
superiore forza armata di occupazione assistita da mercenari spietati.
Ci
siamo immedesimati abbastanza? Non stiamo descrivendo un film
apocalittico di fantascienza post-atomica del XXII secolo. No, stiamo
raccontando la Guerra Infinita di oggi, con la sua sequela di Stati
falliti, ordinatamente messi in fila secondo l’inesorabile tabella di marcia
rivelata dal generale Wesley Clark. Là dove c’erano Stati sovrani che
ostacolavano l’Impero rimangono territori neocolonizzati e
neofeudalizzati. I regimi prima della dissoluzione saranno ricordati
solo dal lato della loro “oppressione”. I leader saranno visti come
Tiranni folli. E con i folli c’è poco da negoziare, no? Lo abbiamo letto, quel rifornitore di bombardieri che risponde al nome di Adriano Sofri? Dice che occorre «avvertire il nuovo pazzo di Damasco che la sua ora è suonata».
La
caccia al tiranno da abbattere prelude a immensi lutti e, finalmente,
all’arrivo delle “tecniche” a Damasco. Questa è la prossima stazione
della guerra, nel quadro di una lunga pianificazione.
Abbiamo assistito alla missione della Lega Araba in Siria, e i risultati sono stati sorprendenti, tanto da meritarsi il mutismo da parte della grande corrente dei media.
La
Lega Araba è egemonizzata dalle autocrazie del Golfo sotto l’ombrello
militare di Washington. Assad, per evitare l’aggravarsi dell’isolamento
finché ha potuto, l’ha accolta alle condizioni dettate, consentendo uno
scrutinio penetrante in lungo e in largo in tutto il Paese. Con sorpresa
di tutti, il rapporto descrive una situazione molto diversa da quella
che corre nei nostri media, e quindi è stato silenziato. Esattamente
come accadde a Saddam Hussein quando l’Agenzia internazionale per
l’energia atomica non trovò uno straccio di prova sulla presenza di armi
di distruzione di massa. La guerra all’Iraq era comunque pianificata e
si fece a dispetto di ogni residuo pretesto. La guerra alla Siria è già
in agenda, e infatti – a dispetto del rapporto – la Lega Araba rompe le
relazioni con Damasco. La determinazione inflessibile è quella che
prelude alla guerra totale. Non si fanno prigionieri.  
Lo schema riduzionista imperante è che Bashar al-Assad
sia l’ennesimo nuovo Hitler, il dittatore sanguinario che spara al suo
popolo, un politico irrazionale che usa la repressione contro istanze
democratiche genuine e pacifiche.
La cosa più drammatica di questa veste concettuale dominante è che essa abolisce la profondità della storia e accetta solo la cronaca,
cioè un terreno totalmente contaminato dai media integrati con le
strategie militari occidentali e di fatto quasi impraticabile per le distinzioni vitali della politica.
Se
si accetta l’agenda dell’Impero, le sue urgenze arbitrarie e
manipolate, si affoga nell’oblio. Dimenticheremmo cioè che esiste un
modello di intervento mediatico e militare ripetitivo già usato in tutte
le guerre dell’ultimo ventennio. Mentre Sofri incita alla fine di
Assad, scende un assurdo silenzio sulla coazione a ripetere di disastri
umanitari e ambientali della Guerra infinita in corso d’opera.
E
c’è di più, se ci facciamo dettare la cronaca dall’Impero assecondiamo
un’immagine ingannevole della Siria e dimentichiamo cosa è stata
veramente negli ultimi anni: un paese di 19 milioni di abitanti che ha
dato una casa e una nuova vita a un milione e mezzo di profughi dall’Iraq,
che hanno potuto spiegare bene ai siriani le amenità della democrazia
per nuovi senzatetto, lo splendore delle strade di Baghdad presidiate
dagli squadroni della morte che mitragliano dalle loro tecniche, nonché
l’odore delle ferite in suppurazione.

Toyota technical_MLRS_3d

Prima
di spiegare ai siriani cosa devono fare a casa loro, chiediamoci tutti:
 l’Italia – per fare una esatta proporzione – sarebbe stata capace di
accogliere umanamente, da un anno all’altro, cinque-sei milioni di nuovi stranieri?
Possiamo avere sinceri dubbi in proposito? Proviamo a immaginare lo
sconvolgimento nella vita civile delle nostre città, una per una,
mettendo in fila, una per una, le vite di milioni di famiglie atterrite.
La
Siria se ne è fatta carico con umanità e immensa fatica, scontando in
modo sostenibile le tensioni aggiuntive che si incastravano nel già
complicato miscuglio etnico del paese, scaricate lì
dall’irresponsabilità criminale di chi ha voluto la guerra irachena. Se rinunciamo a questo giudizio storico equanime, la guerra avrà guadagnato molto terreno.
Assad
ha un consenso molto forte, anche quando reagisce con durezza militare
alle sedizioni armate che finora hanno ammazzato migliaia di uomini
delle forze dell’ordine, perché milioni di siriani sanno che se dovesse
saltare il suo blocco politico e sociale sarebbero “irachizzati” e
trasformati anch’essi in uno stato fallito. Il sistema di potere della
dinastia familiare del presidente siriano ha tirato troppo la corda
delle riforme a lungo rinviate, e arriva terribilmente tardi. Ma un
minimo di analisi politica oggettiva è sufficiente a cogliere che le
aperture costituzionali ci sono, e non sono di poco conto.

Basterebbe
già questa vicenda a ridare il senso delle proporzioni per valutare il
contesto della guerra. Prima di farci trascinare nel coro delle condanne
contro le repressioni, ascoltiamo bene chi inizia il canto corale. Sono
i capi di apparati che fanno una strage dopo l’altra. Lasciando stare
per ora i droni di Obama in Pakistan o le stragi di Sarkozy in Costa d’Avorio, ci basta aprire un quotidiano turco in un giorno qualunque, per trovare notizie come questa: “I caccia turchi bombardano obiettivi del PKK in Nord Iraq”.
Da noi, neanche un trafiletto, mentre tutti credono di sapere cosa
accade a Homs. C’erano e ci sono spazi e disponibilità di Assad che sono
stati rigettati sistematicamente e criminalmente, con ingerenze
straniere orientate a uccidere nella culla qualsiasi soluzione che non
fosse la guerra civile.
Sentiamo qualcuno strillare contro la conclamata violenza anti-curda in atto chiedendo un “Regime change” ad Ankara, magari a costo di un crollo del paese? Sentiamo forse qualcuno che faccia notare la doppiezza di Obama? Il presidente USA contro la Siria di Assad chiede sanzioni in nome dei diritti umani violati, mentre per il Bahrain di Al-Khalifa
– che ha schiacciato le opposizioni con l’«aiuto fraterno»
dell’esercito saudita e con massacri e torture supportati dagli USA – fa
tutti gli onori.
Nella
nebbia della cronaca, domina quasi incontrastata la narrazione dei
media anglosassoni e di quelli controllati dalle petromonarchie del
Golfo. La cronaca sugli eventi siriani non fa eccezione, e propone
schemi falsi e fuorvianti. Uno di questi è che la rivolta siriana
sarebbe nata pacifica e poi costretta ad armarsi per fronteggiare una
repressione indiscriminata.
In realtà i focolai di rivolta armata si sono avuti praticamente da subito, come in Libia del resto.
Il
primo episodio consistente è della prima metà di aprile 2011, quando
una colonna militare dell’esercito viene attaccata con armamento pesante
sull’autostrada verso la città di Banias provocando 9 vittime tra i
soldati, tra cui un alto ufficiale (prima si erano avuti solo agguati
sparuti contro pattuglie della polizia o esercito in diverse località
del paese). A Banias era scoppiata un’insurrezione, forse promossa dai
fedelissimi dell’ex vice-presidente Khaddam (esautorato nel 2005 per una
lotta di potere interna e riparato in Occidente) e che a Banias ha la
sua roccaforte storica.
Ora,
non si attacca una colonna militare con armamento pesante se non si ha
una adeguata preparazione. Sono azioni che non si improvvisano. Va
notato che nei primi tre-quattro mesi di rivolte, si contavano già
nell’ordine delle centinaia i membri delle forze di sicurezza e dell’esercito rimasti uccisi. Da allora sono con ogni probabilità migliaia.
Sulla stampa occidentale e sui canali satellitari del Golfo per mesi si
diceva che fossero stati giustiziati perché si rifiutavano di sparare
sulle manifestazioni. Era un vero e proprio mantra, clonato dalla
litania che aveva distorto allo stesso modo le cronache sui caduti
libici. Quando tale mantra risultò non più credibile, nacque l’Esercito Siriano Libero.
Da quel momento i soldati lealisti erano effettivamente uccisi in
combattimento, ma da parte dei disertori che lottavano contro il regime.
Uno schema collaudato in tutte le guerre degli ultimi decenni.
Fin da subito, comunque, le testimonianze sul posto raccontavano di “bande armate” che fomentavano il caos. Antonella Appiano,
giornalista che si trovava in Siria fin da prima dello scoppio delle
insurrezioni (cioè dall’inizio di marzo), ha raccolto innumerevoli
testimonianze sulla presenza di queste bande. Tale elemento è perfino
scontato tra la popolazione siriana.
Ora, non è escluso che ci possano essere casi di “strategia della tensione”, ossia auto-attentati sotto falsa bandiera (false flag) per giustificare la repressione. Giornali di solito prodighi di patenti di cospirazionista per chi sospettava operazioni false flag
per molti attentati accaduti in Occidente (a partire dall’11
settembre), hanno fatto a gara per subodorare complotti interni e
auto-attentati in Siria. In realtà il ragionamento può essere svolto
anche dall’altra parte. È indubbio, in ogni caso, che esistono numerosi
casi di infiltrazioni di uomini armati che sparavano indistintamente
sulle forze di sicurezza e sulle manifestazioni, e, poi, anche sui
civili in modo casuale, con lo scopo evidente di creare caos per il caos. A chi giova questa strategia criminale, già vista in America Latina e in Iraq, straordinariamente efficace nel destrutturare il grado zero della sicurezza che gli stati dovrebbero garantire nel patto di cittadinanza? Chi ha guidato la mano degli squadroni della morte?
robert-s-fordSarebbe interessante chiederlo a Robert Ford, l’ambasciatore USA a Damasco. Prima dell’incarico nella capitale siriana Ford era stato assistente di John Negroponte
quando questi era ambasciatore a Baghdad e anche lì imperversavano gli
squadroni della morte, esattamente come in Honduras ai tempi in cui
faceva l’ambasciatore, e da lì organizzava la guerra sporca dei Contras
del Nicaragua, oltre ad addestrare le forze speciali e i torturatori di
tutto il “cortile di casa” del Sud America.
Uno
sguardo ravvicinato alle violenze in Siria fa sorgere domande terribili
sulle narrazioni ufficiali di chi oggi dà la caccia ad Assad come ieri a
Gheddafi.
È
in questo clima e in questa situazione sul terreno che avviene la
repressione, la quale non è inventata, ed è certamente di grana grossa,
rodata da prassi ormai cinquantennali. Di nuovo la Appiano è stata
testimone oculare diretta, a luglio scorso, di una manifestazione inerme
nei sobborghi di Damasco su cui la polizia ha sparato contro, e
riferisce, inoltre, di testimonianze da persone, che ritiene affidabili,
che le continuano a parlare di retate di massa e torture. Altri
reporter riferiscono in modo circostanziato esempi analoghi.
Tuttavia,
se fosse anche parzialmente vero che esistono infiltrazioni che
attentano contro lo Stato con l’intento di provocare una guerra civile,
tale repressione e tali metodi, sicuramente anche brutali, possono
essere giustificati? Fino a che limite lo sono e oltre quale limite
diventano violazione dei diritti umani?
Posto
che ci sono molti civili che protestano in modo pacifico, come facciamo
a qualificare come «civili» gli autori di operazioni a tutti gli
effetti militari? I «civili» non portano armi, e pertanto nessuno
dovrebbe attaccarli, nemmeno i ribelli. Ma se il termine «civile» va a
coincidere con «combattente» armato – come quello a bordo della
“tecnica” – che agisce contro un governo sovrano legittimo, allora
nessuno potrà immaginare che un esercito regolare possa capitolare
davanti a questa tassonomia di «civili», ne tolleri senza reagire gli
attentati; e infine ceda a una sicura sconfitta. Nessuno stato lo
farebbe.
henry-kissinger-inexpressSiamo
cinici? No, facciamo un ragionamento politico. Perché mai dovremmo
regalare la lucidità interpretativa solo a un vecchio serial killer di
democrazie come Henry Kissinger? L’ex segretario di
Stato USA, rivolto a una qualificata platea di berlinesi, nel giugno
2011, fu esplicito, quando parlò del Bahrein e delle altre monarchie
alleate: un cambiamento democratico non gioverebbe agli interessi americani.
Fu ancora più esplicito: lo scompiglio rivoluzionario nei paesi arabi
del Golfo Persico poneva un problema «strategico e al tempo stesso
morale» per l’America. In veste di inventore del Piano Condor, ossia di
pianificatore delle decine di migliaia di desaparecidos, Kissinger aveva
già fatto la sua scelta «morale», ancora una volta. Lui sì che sa
scegliere le priorità dell’agenda, e non se le fa dettare da nessuno.
Lo
stesso Assad, nei discorsi alla nazione, ha parlato di errori, di
impreparazione delle forze di sicurezza, che, di fronte a situazioni di
caos hanno sparato in maniera indiscriminata. Secondo Assad tali eccessi
sono stati determinati da situazioni contingenti sul terreno e non
dietro ordini specifici. È credibile?
In
realtà dobbiamo spogliarci dall’idea di vedere certi regimi (come
quello siriano, o ancor più quello iraniano) come granitici. Al
contrario. Nelle stanze del potere è un brulicare di interessi
contrapposti, corruttele, difesa di rendite di posizione. Alcuni settori
del regime potrebbero avere interesse a radicalizzare lo scontro
proprio per togliere ad Assad terreno di trattativa e promulgare talune
riforme che possano essere a loro sfavorevoli. Prima di aprire il vaso
di Pandora della guerra, facciamoci molte domande su quali leve
utilizzare per una via d’uscita politica.
Quali
sono, ad esempio, le forze endogene che agiscono? Ci sono elementi
laici e democratici che si ribellano? Certamente ci sono. Ma, se il
regime dovesse cadere, quali saranno le forze fondamentali che
prevarranno? Non è difficile fare previsioni: le stesse che, mutatis mutandis,
hanno finora prevalso in Libia, Tunisia, Egitto. Ovvero gruppi e
partiti di ispirazione religiosa-radicale che hanno i propri immediati e
diretti sponsor nelle aristocrazie dei piranhas del Golfo (Arabia
Saudita e Qatar in testa). Lo scontro vero, fondamentale, di questo
passaggio storico in questa area, è proprio tra sunnismo e sciismo
politico (dove per politico intendiamo non meramente religioso) e quindi
tra i membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo alleati con
l’Occidente (Stati Uniti e Israele) e dall’altra parte Iran, Siria,
Hezbollah in Libano, Hamas in Palestina, alcune componenti in Iraq. Uno
scontro che ha preso l’abbrivio, con caratteristiche diverse nel Nord
Africa e si concluderà presumibilmente in Iran. Con la Turchia che
intanto scommette di riportare tutto in una cornice moderata. Impresa
molto difficile, almeno se osserviamo i tagliagole al potere in Libia, o
i sermoni di certi Ulama sotto il cielo siriano.
Ancora
una volta, prima di volere per forza spiegare a un siriano filo-Assad
dove abita, come in troppi fanno in Occidente, proviamo a immaginare la
sua reazione di fronte alla predica dello sceicco salafita Adnan al-Aruri,
originario di Hama e riparato in Arabia Saudita, dove è diventato una
star della Tv satellitare al-Wisal, dai cui schermi indossa l’elmetto
contro gli sciiti. La predica risale a giugno 2011 e prende di petto il
legame del regime con le minoranze, specie la comunità alauita: «A chi
rimane neutrale non sarà fatto torto alcuno. Chi partecipa alla
Rivoluzione sarà con noi e verrà trattato al pari di ogni altro
cittadino. Chi invece sarà colpevole di un sacrilegio sarà squartato e la sua carne sarà data in pasto ai cani»[1]. Adnan al-Aruri fa retorica, ma altri predicatori usano ben altro che le parole, ancorché incendiarie.
Caliamoci
ancora una volta nella fornace della storia, sentiamoci già fuori
dall’involucro della nostra normalità, e immaginiamo quali pensieri ci
verrebbero, se vedessimo ogni giorno i seguaci di un simile figuro
incendiare il nostro Paese e prometterci credibilmente di dilaniarci per
ingrassare i cani, esattamente come i parenti del vicino profugo che ci
ha raccontato la sua sorte in mano a chi aveva “abbattuto il regime
oppressivo” di Saddam.
Quali
sono le fonti di molti eventi siriani descritti in questi mesi? Sarebbe
molto utile saperlo; per quanto riguarda la situazione di Homs, le
testimonianze di chi è stato sul posto dimostrano ampiamente che lo
scenario è molto più complesso di quanto viene propagandato a suon di
titoloni.
Dovremmo
imputare le responsabilità degli eccessi  a qualche “mela marcia”? La
repressione esiste, non è un’invenzione, lo ribadiamo, ma è necessario
vedere la fotografia più panoramica. E in questo quadro Assad non può
essere dipinto quale esclusivamente “brutto e cattivo”, ennesima replica
della “reductio ad Hitlerum”. Assad è un elemento di un
sistema composito e, se si segue da vicino la traiettoria che ha tenuto
durante la crisi, si nota distintamente, a nostro avviso, il suo aver
fatto tutto quanto era in suo potere per (ovviamente) salvaguardare il
“suo” sistema di comando, ma anche per evitare una guerra civile.
Non
è un caso che gli oppositori più ragionevoli abbiano più volte chiesto
ai manifestanti di fermarsi per non essere strumentalizzati e per aprire
un tavolo negoziale con il governo. Quando si spara non si tratta. Chi
sparava? Chi fomentava il caos? Probabilmente lo si è fatto da entrambe
le parti, c’erano sia apparati legati al potere che fazioni
dell’opposizione, che rispondono a logiche diverse ma assumono,
fatalmente, le stesse tattiche.
Troppo complicato, ai tempi di un “Mi piace” su Facebook? Proviamo a semplificare, allora.
Premessa:
prima dell’inizio della crisi Assad era generalmente apprezzato dalla
maggioranza del popolo siriano. Chiunque sia stato in Siria ammette
questo fatto; semmai la critica poteva essere la seguente: Assad è
bravo, peccato che il sistema sia così corrotto; Assad ha promesso che
lo riformerà, piano piano, abbiamo fiducia che sia così.
In
presenza di questa pazienza popolare, sulle ali di una situazione
economica sulla via della prosperità, la necessità di presidiare la
difficile sovranità nel panorama arroventato del Vicino Oriente dava la
precedenza alle scelte più conservatrici di Assad, ai suoi colpi di
freno, attenti a non mettere in crisi il suo partito-Stato, il Ba’th.
Quando è scoppiata la crisi, si sono delineati questi protagonisti:
Dimostranti pacifici
che chiedevano inizialmente solo riforme, di varia ispirazione politica
(laica, religiosa, etnica, socialista, liberale, ecc.) e che hanno
agito in buona fede. Con l’inasprirsi degli scontri hanno assunto
posizioni via via più radicali. Hanno dimostrato di essere una
minoranza: risibile a Damasco e Aleppo, le due città fondamentali, molto
più consistente in altre zone della nazione, magari anche con
rivendicazioni proprie e particolari (caso esemplare Deraa).
 Politicamente sono divisi in tre filoni: i comitati di base (vogliono
la caduta del regime ma nessun intervento dall’esterno), i gruppi
dissidenti all’estero (molto più ambigui sugli “aiuti” esterni), gli
oppositori “dialoganti” che temono la guerra civile.
Ribelli armati.
Sono apparsi praticamente da subito e non solo come risposta alla
repressione. Anzi, il loro obiettivo era scatenare la repressione e
radicalizzare lo scontro coinvolgendo i manifestanti “democratici”. Chi
sono? Dentro c’è di tutto e di più: gruppi legati ad ex uomini forti
epurati come Rifaat Assad, zio di Bashar, il massacratore di Hama del
1982, o l’ex vice-presidente Khaddam, riparato in Occidente, considerato
comunemente un “macellaio” anche dagli oppositori democratici; fazioni
sunnite radicali endogene, che avversano il regime da sempre
(Fratellanza musulmana, salafiti) e che possono avere contatti con stati
esteri (soprattutto le monarchie sunnite del Golfo). Il grosso dei
“manifestanti” ha questo carattere, al loro interno si muovono i gruppi
armati con la stessa ispirazione; veri e propri infiltrati jihadisti,
soprattutto da Iraq, Giordania, Libano, Turchia. Su questo aspetto è da
tenere particolarmente evidente come la maggioranza degli “alqaedisti”
che sono arrivati in Iraq durante l’occupazione americana, venissero
dalla Cirenaica e transitavano proprio attraverso la Siria. Se il regime
ha compiuto un errore strategico è stato quello di chiudere un occhio
su questo transito. In Siria è stato forte il dibattito: che ne facciamo
di questi? Alla fine hanno deciso di non fare nulla. Superfluo dire che
non esiste niente di più torbido di queste armate jihadiste, le cui
strutture sono state attive in Afghanistan negli anni ’80, transitando
per Cecenia e Balcani negli anni ’90, in Iraq dal 2003, e tornando fuori in Libia e ora in Siria con la “primavera araba”;
i disertori dell’Esercito Siriano Libero:
difficile dire quanti siano, forse alcune migliaia, probabilmente di
confessione soprattutto sunnita. Non vi fanno parte, al momento,
ufficiali di alto livello (il loro comandante è, ad esempio, un
colonnello e non un generale), sono appoggiati soprattutto dalla
Turchia; non si può escludere l’azioni di forze speciali occidentali (e
anche israeliane) che magari non agiscono direttamente sul terreno ma
coordinano le azioni e le infiltrazioni dai paesi confinanti. Se truppe
speciali entrano in azione in Siria dall’esterno sono probabilmente
arabe, quelle che hanno agito anche in Libia, e libanesi (sunnite e
cristiane falangiste); brigate sunnite irachene, le stesse che cooptò il
generale Petraeus per il surge
in Iraq: Il presidente iracheno Al Maliki le ha sciolte e loro hanno
trovato un altro impiego (secondo voci di intelligence che valgono quel
che valgono si devono a loro gli attentati di Damasco con le autobombe);
brigate curde siriano-irachene.
I curdi siriani avversano il regime, quelli iracheni, numericamente
molto più consistenti, sono anche molto più organizzati. Le forze armate
curde irachene, tra l’altro, sono addestrate dagli israeliani.
Forze di sicurezza siriane
(esercito, polizia, servizi segreti). Combattono le insurrezioni e
dovrebbero proteggere i manifestanti pacifici. La prima parte la
svolgono anche in maniera brutale. Se combatti una guerra lo fai con
tutti i mezzi a tua disposizione. Riescono a distinguere tra insorti e
manifestanti? Abbiamo i nostri dubbi (di qui le ammissioni di Assad sui
gravi errori). Ma, vista la situazione sul terreno, è forse missione
impossibile, anche avendo le migliori intenzioni (e loro non crediamo le
abbiano). Ci sono settori “estremi” nella repressione? Come in tutti
gli apparati statali, ci sono quelli con la vocazione del “lavoro
sporco” (e qui siamo nel Vicino Oriente e in un regime che è,
obiettivamente, autoritario). Pare accertata la presenza di elementi
iraniani che supportano le forze di sicurezza. Di certo non sono
angioletti, e in mano non hanno arpe. Anche perché i nemici non
maneggiano clarinetti.
Shabbiha, le milizie filo-governative.
Possono essere talvolta più realisti del re, per quanto riguarda i
metodi repressivi. Talvolta perché fanatici, talvolta perché proteggono
il loro sistema di potere che può avere anche carattere “mafioso”. Non
ci stupiremmo se agissero (anche) con metodologie da “strategia della
tensione”. Le manifestazioni “democratiche” sono per loro un pericolo
perché potrebbero offrire ad Assad il “pretesto” per riforme che possono
spazzare vie le loro rendite di posizione, che possono essere mantenute
solo se prende il sopravvento la logica miope dello scontro muro contro
muro.
Anziché
lucidare le grancasse delle condanne, noi che viviamo sicuri nelle
nostre tiepide case, dovremo dunque usare una prudenza estrema, per
difendere la causa della pace, e mettere qualche granello fra gli
ingranaggi della macchina della guerra.
L’Impero
gioca la sua partita esistenziale e lo fa sulla pelle dei popoli con i
mezzi che ha sempre utilizzato e che noi tutti conosciamo bene. Per
l’Occidente il negoziato è impossibile. Intende semplicemente
rovesciare un regime che fa parte di un blocco di cui i poteri
occidentali vogliono liberarsi ad ogni costo.
Un
leader che aveva un potenziale politico riformatore enorme, Bashar
al-Assad, è così trasformato in un “macellaio”, prima di asfaltarlo e
costruirvi sopra  – in vista della prossima guerra atomica – una base
militare in più, circondata dalle grassazioni della soldataglia sopra le
“tecniche” lungo le strade di una nazione in sfacelo.
 

[1] Cfr. Thomas Pierret, “In Siria ‘Allah’ non fa rima con Fratelli”, Limes, n. 1-2012. Il grassetto è nostro.

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