Certificati di credito fiscale e minibot. Una battaglia per la verità

di Pino Cabras.

Martedì scorso 28 maggio 2019, a Montecitorio, insieme maggioranza e opposizione abbiamo votato all’unanimità una mozione che impegna il governo a «sbloccare il pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni verso imprese e professionisti». Nel testo a lungo limato e armonizzato tra il governo e la minoranza, c’era un riferimento a una misura prevista anche nel contratto di governo, che ricomprende tra le fattispecie di pagamento dei debiti la cartolarizzazione dei crediti fiscali anche attraverso «strumenti quali titoli di Stato di piccolo taglio».

Immediatamente il PD ha fatto marcia indietro e annuncia di voler fare un ordine del giorno urgente contro i cosiddetti minibot, alcuni economisti vedono addirittura l’intento di uscire precipitosamente dall’euro, qualche giornale annuncia scenari apocalittici, e perfino Il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF)sente il bisogno di comunicare che non ritiene necessario preparare «emissioni di titoli di Stato di piccolo taglio», per far fronte a «presunti ritardi» (dice proprio così) dei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni italiane.

La retromarcia del PD sostiene la contrarietà ai minibot perché porterebbero a «creare nuovo debito». Nulla di più inesatto. Non possono creare nuovo debito dal momento che il loro scopo è invece quello di regolare un debito pubblico che esiste già nei confronti delle imprese. I “grandi competenti del PD” non avevano capito la mozione quando la firmavano con favore e non la capiscono nemmeno ora che la disconoscono. Non hanno capito la natura di uno strumento che trasforma in liquidità e scongela l’assurda massa di risorse bloccate da quando lo stato non paga i suoi fornitori: da quando cioè aveva già un debito.

Anche il MEF che parla di “presunti ritardi” non la dice giusta. Chissà se l’aggettivo usato da quelle parti sarebbe lo stesso se lo Stato iniziasse a pagare con mesi e anni di ritardo i lauti stipendi dei dirigenti del MEF. Altro che “presunti”, strillerebbero come aquile. Un proverbio sardo dice: «in pedde anzena corrias ladas». Con la pelle altrui, strisce larghe (ossia, quando pagano gli altri ci si lascia andare a eccessi, si può largheggiare). Le strisce della pelle di chi non viene pagato dalla pubblica amministrazione, per lorsignori, possono essere larghissime.

Bisogna fare presto qualcosa per sbloccare una massa di decine di miliardi che sarebbe di per sé in grado di rianimare l’economia, il tutto senza fare debito nuovo, perché è già debito. I minibot sono una di queste soluzioni.

L’altra soluzione è quella che propongo a gran voce da un po’ di tempo in qua ed è oggetto di una mia imminente iniziativa parlamentare. Si tratta dei Certificati di Credito Fiscale (CCF): funzionano come una “quasi-moneta” complementare, non avente quindi valore legale (l’Euro resterebbe l’unica moneta legale), basata su sconti fiscali differiti, relativi a imposte non ancora maturate, in grado di creare la liquidità di cui abbiamo bisogno. Serve proprio a evitare le incertezze potenzialmente devastanti di un’uscita dall’Euro, consentendo al contempo all’Italia di recuperare dal punto di vista economico, senza violare alcun dettame dell’Unione Europea. I CCF non sono debito. Lo Stato non si impegna a rimborsarli in euro, ma solo ad accettarli a riduzione di impegni finanziari futuri nei suoi confronti. Lo spiega bene lo stesso Eurostat, il sistema statistico istituzionale dell’Unione europea, che con il Sistema Eurostat SEC 2010, reso esecutivo con il Regolamento n. 549 / 2013 (vedi in particolare i paragrafi 5.05 e 5.06) li configura senza ambiguità come credito tributario “non pagabile” in quanto non soggetto a essere rimborsato in cash. L’emissione di questo strumento, ancorché se ne debbano valutare gli effetti nei documenti di programmazione in termini di “minori entrate”, non può in alcun modo essere registrata come “spesa” o come “debito” nella contabilità pubblica e nei documenti consuntivi di finanza pubblica.

Istituendo i #Minibot o i #CCF si possono mettere nel circuito economico diverse decine di miliardi a beneficio di imprese e cittadini e si ripagherebbero nel modo proprio di una buona politica espansiva. Le migliaia di miliardi immessi dalla BCE avevano altri obiettivi e non sono invece serviti, alimentando disuguaglianze e crisi territoriali anche gravi nel corso degli anni. La priorità di Francoforte non è stata certo l’attenzione alle piccole imprese, alla riduzione del cuneo fiscale, al reddito minimo, bensì l’eccessiva concentrazione dei capitali, legata a frequenti crisi speculative che hanno minacciato la tenuta del sistema economico complessivo e dei mercati.

Basta approcci ideologici! Chi vede in queste misure l’intenzione di creare disordine monetario sta invece mestando nel torbido per difendere uno status quo che in realtà ci fa rischiare di più. La proposta delle quasi-monete fiscali si presenta come un potente strumento capace di disinnescare alcune incombenti minacce finanziarie e, al tempo stesso, di superare la stringente dicotomia “Euro Sì – Euro No”.

Tale misura permetterebbe al governo di riprendere il controllo di importanti leve monetarie senza infrangere le regole della zona Euro.

Dunque, si potrebbero coniugare i vantaggi di una più ampia capacità di manovra del governo in termini di politica fiscale e monetaria, senza tuttavia pregiudicare l’esistenza dell’Euro (unica moneta legale) né la permanenza dell’Italia nell’Eurosistema.

Dal punto di vista prettamente politico, tutti i profeti di disastri e sventura che speculano politicamente sull’ipotetica uscita dell’Italia dall’Euro resterebbero a bocca asciutta, privi di argomentazioni a cui appigliarsi.

Loro non si arrenderanno mai. Noi neppure!

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