di Pino Cabras – da Megachip
Ecco un piccolo videogioco, “Raid Gaza”, con grafica spartana e messaggio ridotto ai minimi termini. Vi introdurrà bene ai rapporti di forza fra israeliani e i palestinesi, con crudezza certo banale, ma fatalmente vicina al vero. Si svela facilmente nei suoi intenti, per come si finge dalla parte degli aggressori ma li mette a nudo nella loro crudeltà.
I videogiochi assumono un’importanza pedagogica sempre più importante. Circolano giochi ben più sofisticati di questo, con messaggi di altro tenore. Immagini in movimento, rapide. Atroci scene di guerra in un lampo, nello schermo, mentre una giovanissima mano anticipa finanche il pensiero, e aderisce ai tempi subliminali del tastierino, nel ritmo che sbudella i nemici sul display. Videogiochi di guerra.
La cultura della guerra si costruisce col tempo. Viene fatta depositare nelle coscienze, a piccole e grandi dosi. I media sono lo strumento fondamentale per coordinare l’immagine, creare tante vie che predispongono le menti ad accettare tutto: le notizie addomesticate, le campagne alimentate dalla paura, lo spauracchio del Nemico, ma non solo. Più sottilmente si fa accettare l’idea stessa della “desiderabilità” della guerra.
La strage di Gaza consumata a cavallo tra il 2008 e il 2009 fa risaltare anche questi meccanismi. Come la classe dirigente della Prussia del XIX secolo coordinava tutte le sue risorse in funzione della guerra di quel tempo, così la Prussia del nostro secolo, Israele, ricomprende tutta la sfera dei media nella sua macchina bellica, nella forma odierna della guerra, un fenomeno che si può dominare integrando un complesso militare-industriale-accademico-mediatico.
Lo ha raccontato bene James Zogby su «The Huffington Post», quando ha analizzato l’energia sproporzionata, anche in questo campo, della macchina propagandistica di Israele.
Lo ha enunciato molto bene anche Miguel Martinez sul suo sito Kelebek, quando ha descritto con dovizia di particolari l’enorme investimento sul Brand Israele, giunto a promuovere i fotoreportage patinati sulle Lara Croft dell’esercito israeliano, tante miss sinuose e armate fino ai denti.
Qualcuno aveva già predisposto il terreno a questi trucchi, non solo per Israele ma anche per il suo alleato più potente, gli Stati Uniti. Sono produzioni mediatiche volte a «definire il nemico, rafforzare un nuovo simbolo di identità e, soprattutto, generare un nuovo idealtipo di donna: Venere Attiva, o W-Venus. La novità che ci darà la vittoria». Questa prosa eccitata si poteva leggere in un articolo apparso su «Il Foglio» del 28 giugno 2006. Autore, Carlo Pelanda, il quale diceva di riferirsi alle elaborazioni di un think-tank americano da lui ammirato. È il titolo dell’articolo a risultare la parte più inquietante: «Il progetto di rieducare i diciottenni di oggi alla possibilità reale della guerra».
Venere Attiva, dunque. Qualcosa di vicino alle flessuose eroine che sparano raffiche nei videogiochi. Su questa manipolazione aveva scritto parole sospettose ed efficaci uno degli intellettuali più abrasivi e ardui da esporre, Maurizio Blondet: «È la War-Venus, che già infiamma i vostri sogni erotici (virtuali). Ma probabilmente non ne conoscete il vero nome. Il vero nome viene da una tradizione antica, che il Pelanda e il suo “think-tank” di riferimento vogliono risuscitare per voi. È la dea Kalì. Kalì l’oscura, che danza sui campi della morte, nei terreni impuri delle cremazioni. Nella iconografia originale (non nei manga) sulle sue tette prosperose danza una collanina fatta di teste mozzate; e non porta calzoncini aderenti, ma un ben più lussurioso gonnellino che nulla nasconde, fatto di braccia strappate.»
E spesso Kalì si accompagna a Pashupati, nel dominio degli “esseri in ceppi”, legati al nesso desiderio-morte. «Per gli indù, gli esseri inceppati (pashu) sono gli animali e gli uomini animalizzati, soggetti ai loro istinti. Siete voi, cari ragazzi post-moderni. Eh sì, ce n’è voluta per rendervi quel che siete, pashu.»
Milioni di persone sarebbero pronte a confutare questa tesi. Capaci di rivendicare la loro attitudine a entrare nello spazio virtuale del videogame violento, sfogare lì dentro l’aggressività e misurarvi i riflessi, per ripresentarsi poi nella realtà perfettamente in grado di distinguere ancora il bene e il male, la violenza e la ragione. Capaci anche di ricordare con tutte le ragioni del mondo che le SS o le truppe di Tamerlano non avevano certo plasmato la loro crudeltà alla Playstation. Giusto. Però non stiamo parlando della generazione che presumibilmente legge queste righe, ancora socializzata ad altri strumenti critici, dotata dell’alfabetizzazione necessaria a difendersi dai disegni dei futuri arruolatori.
I videogiochi consentono di fare delle esperienze “pericolose” all’interno di un habitat controllato e virtuale. Se ancora per molti non è difficile separare i piani del virtuale e del reale, sappiamo che sono sempre di più i ragazzini lasciati soli, senza “alfabeto”, senza decodifica, davanti agli schermi. Viviamo in una dimensione inedita. Lo segnala Aric Sigman, della British Psychological Association, sulla rivista «The Biologist». Le persone tra gli 11 e i 15 anni hanno gli occhi monopolizzati da uno schermo durante il 55% del loro tempo di veglia. Nell’ultimo decennio questo tempo è cresciuto del 40%. Significa che la maggior parte del tempo è gestito – per una massa di individui immensa – da agenti educativi nuovi, che prima non avevano questo potere pervasivo. E chi sono questi agenti educativi, quali valori e moventi hanno, chi li finanzia, chi li influenza? Chi è che si prende oltre la metà del tempo delle nuove generazioni?
Provate a entrare nel network di gioco online di Gamespy. La proprietà è di Rupert Murdoch. Tanto per ricordare che sono in pochi a guidare i giochi. E quei pochi sono in perfetta consonanza con le oligarchie che appoggiano le guerre.
Nel film “Fahrenheit 911” di Michael Moore colpisce l’intervista a un giovane soldato che opera in Iraq e racconta di come è rimasto frastornato dalla puzza dei cadaveri bruciati, perché nei videogiochi il mondo era inodore. Mancavano le dure sfumature del reale.
Può esistere un intrattenimento nuovo che possa impedire questa alienazione della coscienza?