Mentre continuo a ricevere commenti inverosimilmente isterici e letteralmente con la bava alla bocca rispetto alla mia critica al modo in cui i media trattano la questione climatica, rimango abbastanza sereno perché so che c’è un altro approccio.
Esistono modi più saggi di discutere che vanno salvaguardati perché affrontano la complessità senza cercare le scorciatoie.
Riporto perciò una riflessione molto pertinente del sociologo Marco Pitzalis a commento di un articolo di un geologo, Fausto Gnesotto, che ha avuto una larga diffusione. Vi invito a leggere le considerazioni del prof. Pitzalis perché pongono temi che ormai non pone più nessuno, ma che saranno cruciali per affrontare le sfide e le minacce dei prossimi anni.
Buona lettura.
Pino Cabras
UNA CONTROVERSIA
di Marco Pitzalis.
La controversia sul clima mette in luce i limiti dei saperi esperti e il fatto che il punto cruciale è l’uso politico ed economico degli stessi saperi scientifici per indirizzare le scelte economiche e politiche (per esempio, far fuori i produttori di macchine a benzina a vantaggio dei produttori di macchine elettriche).
Chi ha ragione tra meteorologi/climatologi e geologi?
Tutti e due: ma solo all’interno dei propri paradigmi.
Se è vero che il clima è fatto di cicli e di micro-cicli all’interno dei cicli, è anche vero che possono accadere eventi che modificano l’andamento di un ciclo.
Per esempio, l’ipotesi “asteroide” nella spiegazione dell’estinzione dei dinosauri. Si tratta chiaramente di una causa esogena.
Nel caso dell’attuale ciclo, i geologi (o almeno quello che ha scritto l’articolo) ritengono che i cicli abbiano una regolarità temporale e sembrano non ritenere possibile che un insieme complesso di fattori e di interazioni possa subire un mutamento in virtù dell’introduzione di un nuovo fattore: in questo caso, l’avvento dell’Antropocene (dalla rivoluzione industriale con l’immissione di CO2 e altre sostanze nell’atmosfera, il disboscamento del pianeta e l’inquinamento degli oceani).
La domanda che posso fare da “studente” è questa:
«Professore, non ritiene che un cambiamento di scala di un fattore (la presenza dell’uomo sul pianeta) possa avere un effetto sull’insieme dei fattori che governavano un ciclo e dunque possa portare ad accelerare un processo comunque in atto modificando il rapporto tra gli altri fattori?», cioè si può considerare che questo produca nuovi modelli di azione e retroazione, che finiscono per mutare l’andamento degli eventi? Nei processi storici e sociologici, si dovrebbe considerare sempre l’insieme dei fattori per come agiscono appunto “come insieme”. Non dovremmo farlo anche per i processi naturali, soprattutto quando questi diventano socio-materiali?
Il punto è l’uso politico della scienza (l’abbiamo visto tristemente con la pandemia).
In questo caso abbiamo due usi impropri. Uno da parte delle tecnocrazie che intendono imporre modelli di sviluppo, di consumo e di vita, che implicano anche una ri-distribuzione delle risorse, del potere economico e dunque politico.
L’altro è di chi, per reagire a questa tendenza, nega completamente il fatto che siamo davanti a una crisi, fondandosi anche su saperi esperti non privi di fondamento.
Le questioni del clima, dell’inquinamento, della penuria di risorse sono reali e producono effetti reali.
Sono questioni che il socialismo ecologista ha sollevato già da decenni. Le élite che oggi cavalcano la svolta green erano ostili a ogni discorso ecologista solo pochi anni fa. Ora lo governano, per fini puramente economici e di dominio.
Il fatto che una parte di questo discorso sia stata assunta (dentro un paradigma tecnocratico e iper-capitalista) dalle élite transnazionali non significa però che il discorso ecologista non sia attuale.
L’articolo qui allegato secondo me è inutile e dannoso. Perché il problema non è se i cicli sono di 400 o 300 anni, ma se l’uomo influenza questi cicli, mutandone il corso.
In definitiva, un progetto ecologista deve essere al centro delle prospettive di lotta dei democratici e dei socialisti (quando parlo di democratici, non mi riferisco ai partiti che usano questo nome), cioè di chi ha come orizzonte di lotta la giustizia sociale e la giustizia internazionale, l’orizzonte della liberazione dallo sfruttamento dei lavoratori e dei popoli, l’orizzonte del rispetto della persona umana e dell’ambiente naturale.