Conversioni e scontro di civiltà

di Pino Cabras

Magdi Allam è un intellettuale organico agli apparati che fomentano uno scontro di civiltà (l’elemento che fa da base culturale per le presenti e le prossime guerre).
Le teorie su questo scontro si irradiano a partire dai think tank neoconservatori.
Il loro rovello è che le nazioni occidentali potrebbero perdere il loro predominio sul mondo, se non saranno in grado di delimitare una natura inconciliabile per le tensioni culturali, soprattutto quella fra Cristianesimo e Islam.

Ecco perché per la battaglia di Allam era necessario che egli si facesse cristiano, anzi: Cristiano.

Cambiare nome e cambiare identità, convertirsi, corazzarsi, sotto l’occhio benevolo dei pensatoi militaristi.

In questi anni – in stretto legame con i fermenti bellici collegati all’11 settembre 2001 – è scoppiata tutta una pubblicistica, che ha tracimato fino al mondo laico, mirante a corazzare un’identità occidentale giudaico-cristiana in opposizione all’Islam nel suo insieme, con una forte identificazione dei destini occidentali con la specialità ormai resa ‘sacra’ e non negoziabile dello Stato di Israele. Grande stampa e premi giornalistici e letterari, con un battage martellante e dovizioso, in Italia e Israele, hanno fomentato ad esempio Oriana Fallaci, Magdi Allam, Fiamma Nirenstein, autori di libri veementemente anti-islamici, scatenati a screditare qualsiasi voce che si discosti da un’agiografia del militarismo israeliano e della funzione ‘democratizzante’ delle guerre angloamericane.
Assieme ai ‘laici devoti’ piazzatisi anche da noi sotto l’ombrello dei neocon e dei teocon americani, hanno spostato tutti gli equilibri esistenti da decenni sulla questione israelo-palestinese nella politica di entrambi gli schieramenti, sui mass media e all’interno della comunità ebraica e del mondo cattolico.

Allam entra dalla fonte battesimale più in vista.
Il giornalista non dà più notizie, si fa notizia.
Non ha tempo per leggere pensatori cattolici che, in merito questione delle sfide identitarie del terzo millennio, sono andati in una direzione molto diversa dalla sua.

Ecco cosa diceva ad esempio Ernesto Balducci (1922-1992):

«Non ci si converte più. Penso che dobbiamo muoverci tutti verso una comprensione più alta della realtà, verso un trascendimento delle identità esistenti. Non ci dobbiamo confrontare l’uno con l’altro per passare l’uno all’identità dell’altro, dato che tutte le identità sono messe sotto questione. Finito il tempo delle conversioni orizzontali, ci sono le conversioni per convergenze.»

(da Il cerchio che si chiude, 1986).

Il XX secolo, tra le altre tante cose, è stato un secolo di antropologi curiosi e intelligenti. Essi hanno contribuito a relativizzare la nostra comprensione del mondo.

L’antropologia si era fondata in origine sull’ontologia della “differenza” (noi e gli altri, popoli di cultura e popoli di natura, civilizzati e primitivi). Le ricerche etnografiche avevano scoperto la possibilità di «diversi modi di essere uomini nel tempo e nello spazio». Rinnegando i propri presupposti originari, l’antropologia riscopriva l’anelito delle peculiari espressioni umane verso una regola universale che accomuna gli uomini, fra loro e alla natura. Questo è il senso degli itinerari culturali dello strutturalismo di Lévi-Strauss, dell’ecologia della mente di Bateson, della grammatica generativa di Chomsky.

Ernesto Balducci fondava il suo discorso su questo anelito verso l’universale. Molte delle sue simbolizzazioni vertevano sulla dialettica fra dimensioni particolari e universali dell’uomo.

«Ciascuno di noi porta in sé […] il segno di una identità culturale. Anche noi siamo di una tribù che è la nostra, con i linguaggi, i riti, i simboli in cui ci riconosciamo. Per l’altro verso io sono certo che in ogni uomo, in ogni gruppo umano, in ogni nazione, in ogni etnia c’è una tensione verso la realizzazione di possibilità umane che sono rimaste latenti. Ogni realizzazione porta con sé uno sperpero. Se noi siamo quello che siamo non potremo più essere quello che avremmo potuto essere. L’uomo possibile che è dentro di noi porta in sé un ventaglio di possibilità che certamente sono finite come possibilità reali ma rimangono in noi come sogni, come aspettative. All’interno delle diversità umane c’è una unificazione che non è data, attuata, ma potenziale ed è per questo che ci intendiamo fra culture diverse. Se io riesco, come mi consiglia in una bella pagina Ernesto De Martino, a decifrare le culture aliene, altre dalla mia, e scoprire quello che c’è di autenticamente umano in quella alterità, in quel momento si dilata la mia stessa umanità, perché una parte delle mie possibilità è sigillata nella alterità che ho davanti. Se io riuscissi a capire bene un negro che viene dal Ghana diventerei più ricco perché quello che è in lui di autenticamente umano, e non mi appartiene in quanto uomo di cultura, mi appartiene in quanto uomo, rientra nel ventaglio delle possibilità che io ho dovuto in qualche modo mutilare nel mio farmi storicamente determinato. C’è nell’individuo e nei gruppi una dialettica che è importante. Al di là di ogni analisi metafisica della persona umana, rimanendo nell’empirico, io dico che nessun uomo si identifica con la sua cultura, c’è altro in lui, e tuttavia la sua cultura ha realizzato in forma particolare qualcosa che rispondeva alle sue attese. Oggi ci troviamo in una situazione nuova per opera della tribù occidentale […]. Le ombre degli illuministi sussultano, ma anche noi siamo una tribù come i cannibali, siamo una tribù fra le altre […]. Il problema nostro è quello di domandarci che cosa di questa tribù resta di valido per tutti gli uomini, perché anche il mussulmano che ancora crede nella guerra santa deve domandarsi se quello che noi occidentali abbiamo conquistato con tante guerre sante alle spalle – il concetto dei diritti umani, la necessità di risolvere secondo ragione i conflitti fra gli uomini, la Carta delle Nazioni Unite che è in gran parte un prodotto della nostra tribù anche se firmata da tutte le tribù della terra – non sia qualcosa che è condizione sine qua non per essere autenticamente uomini del 2000. Il mio rispetto per il mussulmano non mi porta ad accettare la bellezza della guerra santa. In ogni cultura c’è il disumano, c’è il tribale aggressivo, c’è il rifiuto dell’altro. La guerra santa è una paurosa sacralizzazione del rifiuto dell’altro. Abbiamo realizzato una condizione planetaria nuova e gli etnologi lo sanno. Se guardo al futuro io dico che l’uomo del futuro non sarà né occidentale, né africano, né… L’uomo del futuro dovrebbe aver realizzato in sé tutte le ricchezze custodite dalle diverse culture, non perché in un uomo esse possano tutte realizzarsi ma perché, attraverso l’ammirazione, in qualche modo io realizzo ciò che ammiro. Quando avrò compreso meglio – come già comincio a fare – il tesoro delle culture africane, in quel momento io sarò un uomo planetario, al modo stesso, come mi è capitato di sottolineare scrivendone la vita, con cui Gandhi ha saputo essere perfettamente indiano e occidentale. I suoi maestri erano i libri Vedici ma erano anche Tolstoj, Rousseau, il Vangelo, il Corano. Egli aveva dilatato la sua coscienza rimanendo fedele alla sua identità. Credo che il nostro futuro andrà in quel senso. È questo l’ideale che ho cercato di esprimere nel mio libro L’uomo planetario.»

(da Le tribù della terra: orizzonte 2000, 1991).

La lunga ‘preistoria’ delle chiusure fra le isole culturali, in cui la paura del diverso era un riflesso che cementava le tribù, è finita. Anche l’aggressività verso gli altri gruppi aveva avuto senso finché non c’erano le strutture di unificazione del pianeta.

«Ogni tribù tende a demonizzare il diverso, appunto perché il diverso evoca le personalità latenti nella stiva della coscienza, soggiogate a fatica dalla personalità culturalmente determinata: se esse emergessero, ci sarebbe la dissoluzione dell’identità.»

(da Montezuma scopre l’Europa, 1992).

Ma le minacce alla sopravvivenza dell’umanità unificano il destino di tutti. L’umanità passa dalla fase della ominazione alla fase della planetarizzazione.

«L’ipotesi da assumere come principio di discernimento nei rapporti tra le culture è quella di un umanesimo planetario in cui una medesima civiltà si integri in culture diverse. Intendo, a questo punto, per civiltà l’insieme degli strumenti materiali e mentali che, com’è avvenuto nel passato, diventano comuni in virtù della trasmissione e degli scambi; intendo per cultura la modalità antropologica nata da una particolare maniera di percepire e di interpretare le sfide della realtà fisica e storica. La civiltà è l’insieme degli oggetti materiali, istituzionali e mentali prodotti da una cultura che rientrano in certa misura nell’ambito degli strumenti esportabili; la cultura è l’insieme sistemico delle concezioni in cui il gruppo esprime e tutela la propria interiorità. La civiltà si trasmette, la cultura si comunica. »

(da Montezuma scopre l’Europa, 1992).

Il fallimento dell’Occidente moderno è nella pretesa di «trasformare in dominio la propria egemonia di civiltà». Un dominio che ha preteso di identificare l’etica con l’affermazione della propria cultura, mentre ignora o sopprime le culture differenti.
Per Balducci il metro è quello dell’etica planetaria, «per la quale, in ultima istanza, è bene tutto ciò che favorisce la vita, è male tutto ciò che accelera il declino entropico […]. Se Marx vedeva il male del modo capitalistico di produzione negli effetti alienanti che esso causava nei suoi protagonisti, sia borghesi che proletari, noi siamo in grado non tanto di correggere quanto di portare più a fondo la sua analisi perché abbiamo sotto gli occhi, per dir così, i documenti dell’alienazione della stessa biosfera, dell’accelerazione entropica che quel sistema produce.»

La speranza di pace non è riposta insomma in una qualche improbabile riedizione della Respublica Christiana da scagliare contro gli altri.

3 Commenti

  1. Andrea Mameli 25/03/2008 at 23:47

    Discorso di Robert Kennedy, 18 marzo 1968, Università del Kansas:

    “Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale
    soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto nazionale lordo (PIL). Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade
    dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che
    valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con
    gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.
    Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della
    qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago.
    Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti.
    Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né
    dell’equità nei rapporti fra di noi. Il Pil non misura né la nostra
    arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra
    conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese.
    Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna
    di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo
    essere orgogliosi di essere Americani.”

    No comment!
    Andrea

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  2. Anonimo 26/03/2008 at 16:53

    Anatema (ovvero la mia nuova [con]versione della fatwa) su Pinoooo!!
    Magdi

    Rispondi
  3. Paolo 02/04/2008 at 17:42

    Ben venga che ad esprimersi su Magdi Allam sia stata una soubrette come Afef http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=4465
    su La Stampa, altrimenti sarebbe rimasta una discussione sul piano della tenzone intellettuale. Invece così ha più modo di essere percepita dal lettore, specie quando scrive “non posso più tacere sulla disinformazione riguardo al mondo musulmano che Magdi Allam porta avanti da anni.” e “caro Magdi, alla faccia tua il dialogo continuerà.”
    Per il resto già il Vaticano ha preso le distanze…
    Che si possa perdere nel silenzio e nell’oblio il suo non disinteressato “delenda Chartago”!

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