di Pino Cabras – da Megachip.
«Terremoto in Giappone, scatta l’allarme nucleare. Evacuate 2000 persone residenti vicino alla centrale di Fukushima. Umberto Veronesi mette a disposizione il suo giardino.» La fulminante battuta appare sul sito www.danieleluttazzi.it. Un terremoto terribile come quello giapponese, nel colpire al massimo grado un paese che porta in sé tutte le contraddizioni dello sviluppo più spinto, è un evento che parla a tutte le società e le fa riflettere sul loro futuro. Parla anche a noi in Italia. Il gravissimo incidente nucleare di Fukushima ci racconta ad esempio senza equivoci che la truffa del “nucleare sicuro” è una delle questioni più urgenti da smascherare. Con il referendum ne avremo l’occasione. L’attuale tecnologia nucleare non può ignorare la geologia, tra rischio sismico attuale e gestione plurigenerazionale delle scorie intrattabili.
Per la verità nessun sistema tecnologico in generale può ignorare la geologia. I giapponesi, convivendo con un suolo che glielo ricorda frequentemente, lo sanno meglio di altri. Un terremoto come quello dell’11 marzo 2011, in altre aree popolate del pianeta avrebbe provocato molti più lutti e devastazioni. La cultura simbolica e le pratiche materiali della società nipponica sono invece caratterizzate da una grande attenzione ai cicli della natura. Le istituzioni dell’epoca Tokugawa (1603-1867) avevano capito ad esempio che la deforestazione era un problema gravissimo e seppero imporre il divieto di tagliare indiscriminatamente gli alberi, incentivando invece la riforestazione e trasformando l’arcipelago in uno dei territori ancora oggi meglio tenuti al mondo, nonostante abbia una densità di popolazione elevatissima. È dell’epoca Tokugawa anche “La grande onda presso la costa di Kanagawa” l’opera più nota di Katsushita Hokusai e forse l’emblema più rappresentativo dell’arte figurativa giapponese. Fu stampata per la prima volta negli anni trenta del XIX secolo, circa 180 anni fa, ma non sto a dirvi perché si dimostra ancora attualissima, nei giorni dello tsunami.
Nel quadro vediamo l’impeto della natura yin mentre viene respinto dallo yang della serena fiducia dei pescatori, piccoli e miseri dentro la cavità invincibile dell’onda, eppure rassegnatamente esperti. Non si oppongono all’onda, adattano il movimento delle loro fragili imbarcazioni. Sanno che l’opera umana è segnata da una «impermanenza». È un esile interstizio di vita fra la massa fluttuante del mare e lo sfondo del vulcano, entità a loro modo mobili, terribilmente mobili, ma permanenti.
I giapponesi serbano molte pratiche di vita legate a questi equilibri, ma essendo tra i maggiori protagonisti dello sviluppo industriale degli ultimi 150 anni, le hanno diluite nelle contraddizioni inconciliabili di quella crescita che pretende troppo dalla madre Terra. Così accade che magari i cittadini del Sol Levante si tengano sì strette le immense foreste di Hokkaido, uguali oggi a quando Tokyo si chiamava ancora Edo, ma che creino gli incanti zen dei rivestimenti in legno delle loro case a spese delle foreste indonesiane. E accade che il trauma di Hiroshima e Nagasaki si sia tradotto nella ricerca di standard di sicurezza nucleare superiore ad altri paesi, e nondimeno fallibili.
Solo che la soglia superata a Hiroshima nel 1945 ha cambiato la scala della razionalità e del realismo. Quella non era più la natura indomabile con cui trovare un equilibrio: era la volontà di potenza del vecchio homo sapiens, la vecchia bestia territoriale, violenta e deforestatrice, ormai in grado di distruggere tutto il mondo.
Noi italiani non siamo certo in grado di dare lezioni ai giapponesi. Nel parlare del nostro Paese, il drammaturgo Marco Paolini afferma che è un paese montagnoso che ha di sé stesso un’immagine di pianura. E che perciò è afflitto da un equivoco della sua identità spaesante e devastatore, predisposto a una catena fatale di calamità del territorio, tutte quante originate da una specie di scriteriata e testarda rimozione della reale natura del nostro suolo. L’identità delle classi dirigenti è interamente modellata da questa concezione del territorio. Mi ritrovo in quanto hanno scritto tempo fa Marino Badiale e Massimo Bontempelli: « C’è bisogno di scegliere quali opere costruire secondo la logica di evitare il consumo ulteriore del territorio e di proteggerne l’integrità, concentrandosi sulla manutenzione costante e sui piccoli aggiustamenti delle infrastrutture esistenti, e bloccando quindi tutte le cosiddette grandi opere, che servono soltanto a mettere in moto appalti, tangenti e corruzione, spesso a vantaggio delle mafie».
Se dopo Hiroshima è cambiato il metro che misura ciò che è davvero realistico in politica, dopo Fukushima (se non era bastata Chernobyl) cambia il criterio di giudizio su ciò che è realistico nell’economia. Le “grandi opere” appaiono improvvisamente ancora più insensate. Il Mose di Venezia, la Tav della Val di Susa, il Ponte sullo Stretto, il ritorno al nucleare, i nuovi grattacieli milanesi, la bretella autostradale della Gronda, e altro ancora, tutte opere inutili e dannose, ciascuna da miliardi di euro, dovrebbero fare inorridire una classe dirigente seria. Invece abbiamo una Casta, senza però le illuminazioni degli Shogun, che almeno avevano un’idea del bene comune.