Estelle va a Gaza: la speranza salpa da Napoli

Intervista a Paola Mandato e Fortuna Sarnataro a cura di Pino CabrasMegachip.


Estelle,
il veliero svedese che vuole rompere il lungo assedio di Gaza, si trova
in acque italiane, dopo un vero e proprio periplo dell’Europa.
Arriva
oggi a Napoli, da dove salperà il 6 ottobre alla volta di Gaza. Sarà
quella la parte più difficile del viaggio, quando si porterà a contatto
con il “muro” della marina israeliana e delle sue forze speciali.
Ne
parliamo in dettaglio con due attiviste italiane, Paola Mandato e
Fortuna Sarnataro, del coordinamento italiano della Freedom Flotilla. 
Quali nuovi rapporti avete costruito nella fase del viaggio “europeo”?
Paola Mandato: Prima è necessario risalire un po’ indietro, alla storia dei movimenti delle flotille
per capire l’importanza che proprio l’evoluzione di questi rapporti
internazionali ha avuto attraverso di esse. Rapporti che si sono evoluti
da semplici contatti tra attivisti fino a diventare campagne nazionali
strutturate, in contatto tra loro. Questo è proprio uno degli obiettivi
che ci siamo sempre posti con le flotille: creare un
coordinamento di una popolazione civile internazionale indignata e
quindi attiva, attenta alla necessità di interrompere il
blocco di Gaza e l’illegalità della politica di occupazione israeliana
della Palestina. Direttamente, visto che nessuna delle istituzioni
internazionali preposte lo fa.
La
maggior parte dei media e dei cittadini ha sentito parlare per la prima
volta di Freedom Flotilla soltanto il 31 maggio 2010, quando le forze
speciali israeliane fecero strage sulla nave Mavi Marmara. Cosa c’era
prima?
Tutto
ebbe origine nel 2006, da parte di un gruppo di attivisti per la
Palestina, statunitensi e inglesi, con all’attivo esperienze varie in
Cisgiordania e a Gaza. L’idea era di estrema semplicità politica:
partire con una nave diretta a Gaza per interrompere l’assedio. Non
altrettanto semplice è stato farlo. Gli attivisti hanno raccolto fondi
negli angoli delle strade, nei supermercati, in occasione di qualsiasi
evento in cui si parlasse di Palestina, utilizzando tutti i contatti
personali, etc … Hanno impiegato due anni per raccogliere fondi, e hanno
dovuto fare slalom tra i tanti ostacoli posti lungo la via dal Mossad:
da quelli oscuri, come le minacce alla sicurezza personale, le barche
identificate per l’acquisto che gli acquirenti improvvisamente non erano
più intenzionati a vendere, fino a ostacoli tangibili tramite le
istituzioni americane, incluse denunce penali di vario tipo.
Quando è stata aperta la prima “breccia” sull’assedio di Gaza?
Finalmente
nell’agosto 2008 il Free Gaza Movement – è questo il nome del movimento
– riesce a rompere il blocco, arrivando a Gaza da Cipro, con due
improbabili pescherecci con a bordo una quarantina di attivisti, tra cui
il nostro Vittorio Arrigoni. Le prime imbarcazioni
internazionali che arrivano a Gaza dopo 42 anni. Altre 4 missioni sono
riuscite a fare avanti e indietro portando a Gaza vari parlamentari,
giornalisti, attivisti e, fuori da Gaza, studenti palestinesi con borse
di studio all’estero o semplicemente persone che volevano ricongiungersi
con i familiari. Tutto questo fino a “Piombo Fuso”. Poi, nessuna
imbarcazione è più riuscita a passare. Israele le ha fermate tutte,
arrembandole violentemente, in acque internazionali, arrestando gli
attivisti, deportandoli per ingresso illegale in Israele e confiscando
beni, merci e imbarcazioni.
Tutto
questo, blocco di Gaza incluso, è avvenuto senza che gli organismi
internazionali preposti intervenissero in alcun modo per riportare
Israele nell’ambito della legalità internazionale.
L’operazione “Piombo Fuso” ha cambiato le carte in tavola. Come ha reagito il Free Gaza Movement?
Il
movimento, composto da individui da tutto il mondo, ha deciso di
cambiare strategia e di coinvolgere altri movimenti internazionali e
campagne nazionali per creare una coalizione in grado di avere maggior
peso politico nell’affrontare il blocco di Gaza. Nasce così la
Coalizione internazionale della Freedom Flotilla. I punti di unione sono
politicamente semplici e rimangono inalterati: metodi di azioni non
violenti, nessuna particolare identificazione politica né religiosa,
sono esclusi antisemiti e fascisti; gli obiettivi politici fondamentali
sono due: far cessare il blocco di Gaza e l’occupazione illegale di
territorio da parte di Israele con relativo diritto al ritorno dei
profughi. Tutti obiettivi, tra l’altro, perfettamente in linea con le
risoluzioni ONU.
Quando è partita la fase della Freedom Flotilla?
La
Freedom Flotilla è in azione, la prima volta, nel maggio 2010, con 9
imbarcazioni e circa 600 attivisti diretti a Gaza, dalla Grecia e da
Cipro. Tutti sappiamo purtroppo con quale esito drammatico. Ricordiamolo
in dettaglio: nove attivisti barbaramente uccisi dalla Marina
israeliana, quando attaccò la Mavi Marmara in acque internazionali, a
circa 80 miglia da Gaza. E tutti sappiamo quanto ciò non abbia avuto
nessuna conseguenza legale per Israele, mentre sappiamo che ha avuto
conseguenze negative per l’economia, date le scelte di non consumo dei
prodotti israeliani, da parte di individui indignati nel mondo.
Da noi non se ne sa molto.
Così
invece riporta addirittura una rivista economica israeliana,
nell’ottobre del 2010, dopo la tragica FF1, parlando anche di
interruzioni di rapporti economici da parte di aziende. Ancora una volta
a prendere l’iniziativa sono individui, a dispetto del silenzio e della
estraneità delle istituzioni.
Dopo FF1, la FF2, e ora la Estelle…
La seconda flotilla
è stato un tentativo di ripetere la prima. Israele ha dimostrato che è
in grado di estendere il blocco di Gaza fino alla Grecia. Noi lo abbiamo
capito e cerchiamo di difendere e rivendicare l’autodeterminazione
della popolazione europea con gli strumenti che la popolazione civile
dispone: tanto coraggio, coinvolgimento personale diretto, raccolta
fondi all’interno delle varie campagne per poter ospitare la prossima
nave nei diversi porti europei e raccogliere solidarietà e consenso
politico dalle nostre popolazioni, prima che la barca di nome Estelle si
diriga a Gaza. La barca Estelle “è stata acquistata direttamente dai
cittadini svedesi, non dal nostro movimento” ci tiene a precisare Dror
Feiler, il portavoce di Ship to Gaza. Hanno risposto in migliaia con
piccole donazioni.
Capiamo
così che Estelle è preceduta da una ricca serie di avvenimenti. A
questo punto possiamo addentrarci nel viaggio di questa barca?
Sì.
Per tornare alla domanda d’origine, i nuovi rapporti costruiti
dall’inizio del viaggio sono il consolidamento dei rapporti con le varie
componenti della società civile e tra le società civili delle varie
citta, regioni, nazioni coinvolte nel viaggio di Estelle. Quando diciamo
che vogliamo interrompere l’assedio di Gaza e scegliamo di farlo
andando direttamente con navi, vogliamo anche che questo si sappia, sia
condiviso, che la Estelle sia anche uno strumento per parlare di Gaza,
del blocco, della situazione drammatica di un popolo palestinese senza
terra e speranza da anni. Mettere in contatto la società civile di tutto
il mondo con la società civile di Gaza: questo è un obiettivo che la
Estelle ha già raggiunto, prima ancora di partire da Napoli per Gaza.
Come ha reagito la politica istituzionale alle sollecitazioni delle vostre iniziative nei vari paesi?
Paola Mandato:
Noi dobbiamo mettere a repentaglio le nostre vite, disarmati, su barche
che vanno a fronteggiare l’esercito più armato del mondo perché la
politica istituzionale nazionale e internazionale è completamente
inattiva, se non connivente, con il blocco di Gaza e tutti i crimini che
Israele commette a tutte le latitudini, impunemente. Noi ci siamo
rivolti alle istituzioni nazionali solo in prossimità delle partenze e
solo per notificare ai rispettivi Ministeri degli Esteri che saremmo
partiti.
E come hanno risposto?
Le
risposte sono sempre state solleciti a “non andare”, perché non erano
in grado di garantire la nostra sicurezza. In una risposta del genere,
noi leggiamo solo la conferma di una precisa volontà: non voler prendere
posizione nei confronti di Israele e della sua condizione di illegalità
internazionale. Quindi, la politica istituzionale reagisce omettendo di
fare il proprio dovere anche verso i propri connazionali in missione
umanitaria.
Questo i governi. E le altre istituzioni?
Ci
hanno sostenuto e continuano a farlo Parlamentari di tutta Europa, di
propria iniziativa, per propria coscienza, turbati quanto noi dal grave
dramma della popolazione palestinese ma impotenti all’interno degli
organi istituzionali.
C’è una petizione (la petizione è in varie lingue:http://upprop.shiptogaza.se/it)
firmata, finora, da circa 79 Parlamentari Irlandesi, 45 Parlamentari
Svedesi, 71 Greci, una quindicina di Parlamentari Italiani e una ventina
di Europarlamentari. (l’appello è ancora alla firma e sarà reso
pubblico dopo la partenza della Estelle da Napoli).
Inoltre,
a Napoli arriveranno Jim Manly, ex Parlamentare canadese ed ex Ministro
delle Chiese Unite, e varie personalità internazionali, tra le quali
alcuni Parlamentari svedesi e norvegesi. Si imbarcheranno sull’Estelle
per percorrere l’ultimo tratto, da Napoli a Gaza (Comunicato Stampa di
Ship to Gaza: http://www.gazaark.org/2012/09/28/former-canadian-mp-sails-against-gaza-blockade/).
Sono
individui, come noi, che rispondono a un richiamo urgente di coscienza,
come noi. Rappresentano le Istituzioni? Anche se non lo potrei dire, le
Istituzioni dovrebbero tenerne conto.
Avete registrato sinora visibili pressioni politiche, burocratiche, militari, contro la vostra missione?
Paola Mandato:
Finora stiamo nella media. Abbiamo avuto un “assaggio”, al momento
della partenza da La Spezia, sotto forma di controlli puntigliosi e
intimidatori inusuali per navi civili. Ma siamo abituati, e soprattutto
siamo in regola, il nostro cargo è puntigliosamente ispezionato almeno
due volte in ogni porto. Ma, a tutt’oggi, stiamo nella normalità;
ovviamente, parlo di quel tipo di normalità che si riscontra quando c’è
di mezzo l’arbitrio israeliano…
Avete
rafforzato l’enfasi sull’appoggio della società civile, mentre non
perseguite l’appoggio di soggetti forti (miliardari o Stati). Perché?
Paola Mandato:
Non abbiamo rafforzato l’enfasi sull’appoggio della società civile, ci
siamo limitati a mostrare la realtà. Se ci appoggiassero quelli che Lei,
giustamente, definisce “soggetti forti, miliardari o Stati”, questo
significherebbe che Israele avrebbe perso i suoi sostenitori.
Significherebbe, quindi, che avrebbe vinto il diritto universale, che si
sarebbe rotta la catena delle complicità, che l’assedio starebbe
cessando. Sono anni che noi denunciamo queste complicità che, di fatto,
rappresentano le basi d’acciaio che permettono a Israele di commettere i
suoi delitti, senza pagare con alcuna reale sanzione.  No, non abbiamo
né chiediamo l’appoggio di Stati o di miliardari vari, anche se il
tentativo di screditare la Freedom Flotilla ha mandato in giro calunnie
in tal senso. Ma, per la loro manifesta stupidità, si sono sgonfiate da
sole, mostrando, più ancora che la pericolosità delle calunnie, il
ridicolo di chi le aveva suggerite e di chi le aveva ripetute.
Come
i cittadini svedesi hanno contribuito con piccole donazioni in migliaia
, così ha fatto anche la cittadinanza di La Spezia e sta facendo la
cittadinanza di Napoli per pagare i costi del passaggio della Estelle
dai porti. Naturalmente, hanno contribuito anche tanti altri donatori da
tutta Italia. Questa è solidarietà, e per questo non occorrono grandi
finanziatori, basta il contributo di tante persone di coscienza.
Fortuna Sarnataro:
Questa è una questione rilevante, che tocca il senso del sostegno che
noi riteniamo sia importante dare alla causa palestinese. Secondo noi,
perseguire l’appoggio dei poteri forti e, quindi, rinunciare o relegare a
un piano secondario il dialogo e la divulgazione delle ragioni
palestinesi rischierebbe di essere, permettetemi l’espressione, un
autogoal. Bisogna, infatti, chiedersi qual è la posizione dei poteri
forti in relazione alla pluridecennale questione della Palestina.
Saremmo ingenui se consumassimo le nostre forze cercando di inseguire il
consenso di soggetti che, nella maggior parte dei casi, partecipano
attivamente alla creazione e al mantenimento delle condizioni disumane
subite dai palestinesi o, anche solo, ne traggono profitto. Inoltre – e
si tratta di un aspetto ancor più importante – pensare di poter
risolvere il problema appellandosi a poteri forti significherebbe non
riconoscere che il problema non è confinato nel ridotto spazio
mediorientale; non si tratta semplicemente dell’ingiustizia inflitta per
cattiveria a una popolazione. Si tratta, invece, di un problema di
ordine più generale, che riguarda direttamente una serie di questioni
per noi centrali: quella dell’economia capitalista, quella degli
strumenti di repressione e controllo sociale, quella di una
organizzazione diversa della società…
Non vi limitate dunque a uno “specifico palestinese”. Perché?
Fortuna Sarnataro:
Diffondere il più possibile le ragioni palestinesi, e tutto ciò che vi è
connesso, sensibilizzando il maggior numero possibile di persone è
prima di tutto una scelta strategica. L’intento è, da un lato, quello di
trasmettere la consapevolezza che quel che subiscono i palestinesi deve
riguardare la società intera, poiché quel che lì si sperimenta o
realizza in maniera acutizzata non è estraneo a quel che accade o
potrebbe accadere da noi. Sperimentazione di sistemi di sicurezza e
collaborazioni universitarie nella ricerca scientifica e militare sono
lì a mostrarlo (basti pensare, al riguardo, all’appalto a una società
israeliana per un sistema di radar che permetta di azzerare gli sbarchi
di clandestini nel sud Italia o all’uso sempre più diffuso di droni
anche nella sicurezza civile). Dall’altro lato, l’intento è sottolineare
che quel che ricaviamo, a livello sociale, in termini di benessere
deriva anche dall’avvantaggiarsi di quelle condizioni di sfruttamento,
occupazione, segregazione (basti pensare alle società italiane che hanno
vinto appalti israeliani nei territori occupati). Il coinvolgimento
della società civile, con la creazione di una consapevolezza diffusa
della realtà palestinese, è l’unica via per destabilizzare il sistema
consolidato dei poteri che a livello internazionale – e l’Italia ne è
purtroppo una conferma lampante – sostiene e tutela l’indifendibile
posizione israeliana, sottraendogli la base di consenso esplicito o
implicito (ignoranza, indifferenza…) grazie a cui agisce indisturbato.
La
parte del viaggio che porterà la Estelle verso Gaza sarà cruciale per
l’attenzione mediatica. Quali sono le “finestre” che volete aprire sulla
blogosfera, e nei media in genere?
Fortuna Sarnataro: La
nostra azione per la diffusione mediatica del viaggio dell’Estelle e di
tutto quel che ne è connesso si svolge su due piani. Da un lato,
diffondiamo e diffonderemo le informazioni generali, gli aggiornamenti e
gli appuntamenti pubblici diretti a mantenere vigile l’attenzione sul
viaggio della nave attraverso dei comunicati stampa, delle interviste e
delle mail ai grandi media pubblici, giornali e televisione, spingendo
perché queste informazioni vengano diffuse. Dato, però, che la realtà a
cui siamo abituati è quella per cui esiste una sostanziale autocensura
dei grandi mezzi di informazione, quando non un comportamento ossequioso
verso i desideri dei poteri forti e visto che il coinvolgimento delle
persone passa anche per molti strumenti di comunicazione capillare,
daremo continuamente degli aggiornamenti tramite siti internet, twitter e
facebook.
Paola Mandato:
Sappiamo che l’attenzione mediatica e, in particolare, l’attenzione
mediatica “corretta” sarà cruciale ma conosciamo anche il robusto
tessuto di cui è fatto il bavaglio imposto ai media dai sostenitori di
Israele. Mi lasci dire, per inciso, che forse i nove pacifisti uccisi a
freddo dai soldati israeliani in acque internazionali durante la prima
Freedom Flotilla sarebbero ancora vivi se la stampa – alla quale
inviavamo accorati appelli affinché seguisse la missione – non si fosse
auto imbavagliata. Solo all’alba di quel terribile 31 maggio, quando
dagli elicotteri israeliani è scesa la morte sulla Mavi Marmara, solo
allora la “notizia” ha avuto gli onori della cronaca.
E ora?
Paola Mandato:
Lei mi chiede quali finestre vogliamo aprire. Bene, io le rispondo
che vorremmo aprirle tutte, tutte quelle che sanno parlare di legalità
ma che, spesso, lo sanno fare a senso unico. Ci stiamo provando, inviamo
comunicati, foto, filmati … e ci riproveremo, in ogni caso, anche se
siamo abbastanza convinti che i media non daranno lo spazio giusto al
nostro veliero e al messaggio che porta. Per questo, useremo tutti i
mezzi tecnologici  a disposizione; useremo, quanto meglio possibile, la
rete.
Siamo
convinti – e sappiamo che anche i nostri avversari lo sono – che la
nostra è una battaglia per la giustizia che va oltre i sacrosanti
diritti, violati, del popolo palestinese e dei gazawi in particolare.
Anche se, volte, la disparità di mezzi può far pensare che sia difficile
vincere questa battaglia, noi non ci fermiamo.
Lo
scenario che descrivete è molto arduo e pericoloso, e sembra chiedere
una dose di coraggio speciale contro i silenzi del potere. Cosa può
incoraggiare la vostra azione?
Il
nostro viatico lo troviamo in un’affermazione storica, una di quelle 
che anche i vecchi partigiani della nostra Resistenza ci hanno ricordato
in questi giorni, rimettendo insieme le parole di Gramsci: “loro hanno
la forza, ma noi abbiamo la ragione. Andiamo avanti con l’ottimismo
della volontà senza lasciarci immobilizzare dal pessimismo della
storia”.  Ecco, con questa convinzione cerchiamo di aprire le finestre
dei media nelle diverse forme. Sappiamo anche che le finestre che
cerchiamo di aprire fanno paura a tanti nostri democratici, perché,
una volta entrata la luce, la verità parla chiaro:  Gaza è una prigione,
per di più una prigione senza neanche i diritti minimi che spettano ai
reclusi. E il carceriere si chiama Israele. Chi non sostiene la nostra
battaglia, fatta di principi, di non violenza, di solidarietà e di
civiltà, sostiene i carcerieri. E’ un’azione che parla la lingua del
diritto, no?   Sappiamo che non basta ad aprire tutte le finestre, ma
noi seguitiamo a provarci.
D’altronde,
ci sono alcuni giornalisti che non hanno paura di raccontare quanto
accade in Palestina, in modo obiettivo; che non cedono alle pressioni o
alle lusinghe di Israele; che non si limitano a passare le veline che
quel Governo invia. Vuol dire che si può fare. Chiediamo, quindi, agli
altri di farsi avanti, di scegliere la parte della difesa della libera
Informazione, una cosa difficile per i tanti loro colleghi che cercano
di documentare la vita in Palestina, a rischio della propria: insieme si
è forti e Israele non potrebbe ignorarlo.
Auspichiamo che, sui media, si apra, finalmente, un dibattito aperto sulla Palestina.

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