Gramsci, i leghisti e il buco nel latte

di Pino Cabras.

Il Viminale non era certo la sede giusta, e Salvini ha fatto un buco nel latte. Nel suo intervento alla “ghe pensi mi” sulla crisi del settore ovino (“entro 48 ore risolvo tutto, non mi alzo dal tavolo se il prezzo del latte non passa da 60 centesimi a un euro”), Matteo Salvini non poteva che sbattere il muso su una realtà molto più complicata, dove l’emergenza richiede sì misure speciali, ma non ha i tempi dei Tweet elettorali. Puoi fare quello che alza la mandibola (il ganassa in milanese, il barrosu in sardo), ma poi la serietà del problema prende le tue misure e ti obbliga ad abbassare lo sguardo (verso il caos immediato del settore) e solo dopo a risollevarlo (per una prospettiva che vada oltre la data delle elezioni).
Non poteva che essere così, e bene ha fatto chi conosce bene il settore – come i miei colleghi deputati del Movimento 5 Stelle Luciano Cadeddu (pastore) e Filippo Gallinella (presidente della commissione agricoltura) – a proporre un programma concreto e realistico [https://www.ilblogdellestelle.it/2019/02/basta-con-le-misure-spot-la-nostra-road-map-per-risolvere-la-crisi-del-latte-in-sardegna-iostoconipastori.html]. Così come trovo molto serie le proposte del candidato alla presidenza della Regione Sardegna Francesco Desogus, che peraltro è un agronomo [https://www.ilblogdellestelle.it/2019/02/i-nostri-pastori-lottano-per-il-futuro-della-sardegna-cosi-sosterremo-la-loro-battaglia.html].
L’approccio dell’ennesimo salvatore “continentale” da sbarco non poteva che ridimensionarsi perché letteralmente lui non sapeva nulla di un’attività umana che c’è da sempre e ha profondamente modellato i paesaggi e le identità umane in Sardegna. Non sapeva di problemi che durano con tempi secolari, difficoltà che nessun arrembaggio scomposto di 48 ore potrebbe rimettere a posto senza correggere un intero modello di sviluppo. Il che non significa che ci rassegniamo né che non si debba agire presto, anzi. Però non puoi fare promesse facilone senza tener conto della struttura del mercato, dei suoi padroni, delle burocrazie, delle catene di valore internazionali.
Questo comparto merita davvero un’attenzione straordinaria. Se esaminiamo il contesto della Repubblica Italiana, possiamo facilmente riscontrare come il maggior numero di capi ovini allevati è detenuto dalla Sardegna (3.301.837) con, a seguire, Sicilia (906.069), Lazio (743.823) e Toscana (422.734). Insomma, su 7.445.000 capi allevati sul territorio della Repubblica, il 44,32% vive in Sardegna, distribuito in 15.400 allevamenti normalmente a gestione familiare che assicurano reddito a circa 100mila persone.
Certo, questi centomila sono altrettanti elettori e durante le elezioni la politica bussa alle loro case, è un gioco normale. Ma c’è modo e modo di aprire il dialogo, e i bluff giustamente si svelano presto.

In questi giorni mi ha colpito leggere la data di un articolo che Antonio Gramsci scrisse in merito al prezzo vile sopportato dai pastori sardi e sulle cause della crisi: è il 1919, cento anni fa esatti, pazzesco. Gramsci analizza il fatto che non è certo la prima volta che discende bruscamente il prezzo del latte ovino e che il mercato sia dominato da quelli definisce “gli spogliatori di cadaveri”. Ossia gli industriali caseari.
«I signori Castelli – scrive Gramsci nel 1919 – vengono dal Lazio nel 1890, molti altri li seguono arrivando dal Napoletano e dalla Toscana. Il meccanismo dello sfruttamento (ed è un lascito della borghesia peninsulare non più rimosso) è semplice: al pastore che privo di potere contrattuale, deve fare i conti con chi gli affitta il pascolo e con l’esattore, l’industriale affitta i soldi per l’affitto del pascolo, in cambio di una quantità di latte il cui prezzo a litro è fissato vessatoriamente dallo stesso industriale». Nel quadro descritto da Gramsci, quando il prezzo del formaggio aumenta ne approfittano solo i caseari, i possessori del pascolo o gli allevatori più grandi, mentre i pastori fanno una vita grama, per giunta sotto il peso delle annate di siccità e delle alluvioni.
Se ci pensate, la durata inerziale dei difetti che colpiscono questo modello produttivo mette i brividi. Cento anni. Ossia quattrocento stagioni che riproducono lo stesso cliché e ora convertono le strade sarde in una Via Lattea turbolenta.
Oltre alle proposte contenute nel programma del M5S, cosa potranno fare i pastori adesso e domani?
Ritengo che sia doveroso consentire alle Pubbliche Amministrazioni le funzioni di controllo e di garanzia sulla Filiera Lattiero Casearia, locale, anche mediante forme di sinergia societarie pubblico-private che la Riforma Madia aveva fatto venir meno. L’occasione di questa piccola riforma l’avremo da subito (era stata calendarizzata alla Camera dalla maggioranza parlamentare da tempo): si discuterà a partire da lunedì 25 febbraio. Per l’occasione presenterò un ordine del giorno che intende avvalorare la possibilità che, anche nel futuro, vengano mantenute laddove esistenti (o permanga la facoltà di costituire) certe realtà di emanazione pubblica focalizzate nella produzione, nel trattamento, nella lavorazione e nell’immissione in commercio del latte ovino.
Mantenere inalterata la partnership pubblico-privata consente di creare meccanismi che consentano alla mano pubblica di esaminare l’andamento del mercato del latte specie nei territori, quali quello da cui io provengo, nei quali l’incidenza sociale dell’andamento del prezzo della materia prima ha risvolti spesso molto forti e determina contrapposizioni pesanti tra il Pubblico e il Privato, che possono dialogare solo in organismi nei quali ci si siede e si collabora.
E poi si può favorire la capacità di “disintermediare” i prodotti.
Dopo il momento di protesta, la richiesta di aiuto, la corsa a influire sul voto, i decreti di emergenza, ecco, dopo tutto questo, va riordinata l’intera catena del valore, togliendo intermediari che appesantiscono inutilmente. Non si dica che non ci sono le tecnologie per farlo. Abbiamo fior di tecnici che scalpitano per creare un sistema più efficiente, pronti a “copiare” infiniti esempi che funzionano nel mondo, magari con piattaforme internazionali, ma perfino con piattaforme create ad hoc, visto che ormai gli investimenti costano molto meno di un tempo, specie nel canale B2B (cioè il business to business, che può mettere in relazione diretta chi produce il latte con chi produce il formaggio).
Pensateci: abbiamo in Sardegna un latte di qualità eccezionale, di eccellente pascolo, senza il carico di antibiotici degli allevamenti estensivi, e ce lo facciamo pagare 60 centesimi al litro. E ce ne stiamo ancora frammentati, atomizzati, senza una piattaforma che ci porti a un territorio di acquirenti che sta ovunque ci sia internet. E ci si mette invece nelle mani di pochi compratori, esattamente come ai tempi di Gramsci. Il discorso vale per il formaggio, con una platea di acquirenti potenziali che abbraccia il pianeta. Oggi i pastori incontrano il marketing politico, compresi i suoi capitani più arruffoni. Domani dovranno invece investire per se stessi, con l’aiuto della sfera pubblica, nel marketing commerciale. Non basta più dire che abbiamo un prodotto e poi dire, come nelle squadre scarse, palla avanti e pedalare. La filiera del lattiero-caseario deve mettere insieme nuove forme di finanziamenti (ad esempio sviluppare finalmente il “pecorino bond”), le piattaforme e i mercati di sbocco ben presidiati. Come dice l’amico Ciriaco Offeddu, che conosce il mestiere del “vendere nel mondo” a lunghe distanze, «l’internazionalizzazione è una disciplina, un mestiere per persone preparate e serie, un processo che chiede investimenti mirati e pesati, non una vetrina per il politico di turno desideroso di immortalarsi nella solita cena all’estero.» O nella solita cena elettorale fra i nostri allevatori, aggiungo io.
L’importante è che ora tutti facciamo bene il nostro dovere, con amore per la Sardegna e avendo fede in un vero cambiamento.

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