Guerra e verità. La difficile classifica della libertà di stampa

di Pino Cabras

Una classifica dal più buono al più cattivo nel campo della libertà di stampa, dalla Norvegia alla Corea del Nord. La leggiamo in un recente e istruttivo comunicato di Reporter Senza Frontiere: il comunicato è pieno di dati che insieme compongono una foto allarmante della libertà di stampa nel mondo.
In apparenza, è acqua al nostro mulino.
Il curriculum di questa reputata organizzazione non governativa fa sempre rumore. Sono tanti i giornalisti colpiti da censure, minacce, arresti e violenze che non vengono dimenticati né lasciati troppo soli grazie a queste opportune ingerenze.
Reporter Senza Frontiere (Reporters sans frontières – RSF) è una Ong internazionale, il cui obiettivo dichiarato è proprio la difesa della libertà di stampa. Raccoglie fondi per pagare gli avvocati dei giornalisti oppressi e così via. Messa così, un comunicato di RSF si potrebbe lasciare senza chiose e commenti. Eppure la critica non deve venire meno, neanche in questo caso, tanto meno su una materia così delicata: la libertà di parola, di espressione, di stampa; la nostra libertà nel mondo.
Il punto è che RSF stila delle classifiche molto discutibili. A tratti ben argomentate, ma magistralmente sbilanciate a favore del sistema dei media egemonizzato da poche corporation anglosassoni, tutte compartecipi delle grandi linee strategiche dell’Impero.
Ci sono nel resoconto di Reporter Senza Frontiere anche alcune significative critiche al sistema dominante dei media. Si stigmatizza in particolare l’effetto devastante della mobilitazione bellica sulla libertà di stampa in capo ai paesi occidentali. Ma per il resto, c’è un’esaltazione del modello: una società aperta dove ci sono pluralismo, leggi, magistrature, divisioni dei poteri, libertà di stampa, competizioni aperte, libertà di pensiero e istituti legali che la tutelano. Bella, la società aperta. Nelle società aperte, il governo è responsabile e tollerante, e i meccanismi della politica sono trasparenti e flessibili. Lo Stato non si tiene per sé i segreti al cospetto del discernimento pubblico; è una società non autoritaria in cui tutti sono meritevoli di fiducia e tutti hanno accesso alla conoscenza reciproca. Le libertà politiche e i diritti umani sono le fondamenta della società aperta. Henry Bergson e Karl Popper avrebbero gradito una simile definizione. È un idealtipo di liberaldemocrazia che si contrappone ai totalitarismi, alle oligarchie, alle società in cui il potere è contendibile solo con i colpi di Stato, gli intrighi e il denaro di pochi.
Ma in realtà, di tutte queste belle cose, che pure sentiamo connaturali ai nostri sistemi, ci è rimasta tutta la retorica, ma molta meno sostanza di quanto siamo disposti ad ammettere. Su queste cose RSF non affonda il colpo, mai. Non entra in dettaglio a descrivere l’ampiezza delle ferite inferte alla democrazia con la complicità dei nostri governi e delle grandi concentrazioni mediatiche. Affonda invece oltre ogni dire il suo colpo sul Venezuela, per esempio, in funzione anti-Chavez, tralasciando fatti importanti sul pur malfermo pluralismo di quel paese. Idem in Russia, con qualche falsità e vaghe insinuazioni, come nel caso Politkovskaja.
L’influenza dei think-tank “parastatali” americani nei confronti di RSF si manifesta se non altro in termini di finanziamenti. Fra i finanziatori troviamo ad esempio l’Open Society Institute di George Soros o il Center for Free Cuba (estrema destra anticastrista con base a Miami), così come il National Endowment for Democracy, un’organizzazione finanziata quasi esclusivamente dal Congresso USA per «promuovere la democrazia», di fatto un’agenzia in grado di condurre legalmente azioni a sostegno di selezionati media e partiti politici esteri altrimenti inibite alla CIA.
Per scelta, Reporter Senza Frontiere non entra nel campo della critica ai media, alle autocensure, al soft power. Ha il facile target della Corea del Nord, bersaglio comodo e maglia nera della classifica dei cattivi, al quale cerca di far avvicinare il più possibile tutti i nemici strategici dell’Impero in declino.
Perciò il comunicato di Reporter Senza Frontiere che annuncia il Rapporto del 2008 va assaggiato con un pizzico di sale. Certo, non racconterà il senso di fallimento dell’avventura imperiale che sta precipitando con Bush, ma almeno ammette che Guerra e Verità sono due temi che tendono a cancellarsi a vicenda. E questo è un fatto fondamentale dell’odierna comunicazione di cui qualsiasi operatore deve tenere conto.
Il lavoro di RSF è insomma solo un pezzo della critica che possiamo fare al sistema della comunicazione. È un utile compendio di notizie da raccogliere e rilanciare per tutelare con atti concreti chi rischia di suo per voler raccontare le cose del potere. Ma questa lettura del problema va legata a una critica più completa nei confronti dei meccanismi di pressione sulla libertà di parola. Cambiando alcuni parametri la classifica sarebbe molto meno rassicurante per il nostro sistema informativo, e meno utilizzabile per ammassare gli avversari dell’Occidente in una galleria di spauracchi totalitari.
Per il resto buona lettura.

Solo la pace protegge le libertà nel mondo post-11/9
Le democrazie coinvolte in guerre fuori dal loro territorio, come gli Stati Uniti e Israele, cadono ulteriormente nella classifica ogni anno mentre vari paesi emergenti, specie in Africa e nei Caraibi, offrono garanzie sempre migliori per la libertà dei media.

Articolo originale: Dans le monde de l’après-11 septembre, seule la paix protège les libertés
Link: http://www.rsf.org/article.php3?id_article=28879.
(Traduzione di Pino Cabras)

Non è la prosperità economica ma la pace a garantire la libertà di stampa. Questa è la lezione principale da trarre dall’indice della libertà di stampa nel mondo stilato ogni anno da Reporter Senza Frontiere e dalla sua edizione 2008, diffusa il 22 ottobre 2008.
Un’altra conclusione dell’indice – i cui tre gradini più bassi sono di nuovo occupati dal “trio infernale” di Turkmenistan (171°), Corea del Nord (172°) ed Eritrea (173°) – è che la condotta della comunità internazionale nei confronti di regimi autoritari come Cuba (169°) e Cina (167°) non è abbastanza efficace da ottenere risultati.
«Il mondo post-11/9 non è chiaramente delineato», sostiene Reporter Senza Frontiere. «Destabilizzate e sulla difensiva, le principali democrazie stanno gradualmente erodendo lo spazio per le libertà. Le dittature economicamente più potenti proclamano arrogantemente il loro autoritarismo, sfruttando le divisioni della comunità internazionale e le devastazioni delle guerre condotte in nome della lotta al terrorismo. I tabù religiosi e politici stanno avendo grande presa quest’anno in paesi che erano abituati ad avanzare sulla strada della libertà». «I paesi chiusi del mondo, governati dai peggiori predatori della libertà di stampa, continuano a imbavagliare a volontà i loro media, in totale impunità, mentre organizzazioni come l’ONU perdono tutta la loro autorità nei confronti dei loro membri», ha aggiunto Reporter Senza Frontiere. «In contrasto con questo generale declino, ci sono paesi economicamente deboli che nondimeno garantiscono alle loro popolazioni il diritto di essere in disaccordo con il governo e di dirlo pubblicamente».

Guerra e pace
Due aspetti emergono nell’indice, che copre i dodici mesi che precedono il I settembre 2008. Uno è la preminenza dell’Europa. A parte Nuova Zelanda e Canada, le prime 20 posizioni sono tenute da paesi europei. L’altro aspetto emergente è il posizionamento rispettabilissimo acquisito da certi paesi centroamericani e caraibici. Giamaica e Costarica sono al 21° e 22° posto, spalla a spalla con l’Ungheria (23°). Appena poche posizioni sotto ci sono il Suriname (26°) e Trinidad e Tobago (27°). Questi piccoli paesi caraibici hanno fatto molto meglio della Francia (35°), ulteriormente precipitata quest’anno, o di Spagna (36°) e Italia (44°), paesi trattenuti all’indietro da violenze politiche o mafiose.
La Namibia (23°), un vasto e ora pacifico paese dell’Africa australe posizionatosi al primo posto in Africa, davanti al Ghana (31°), era a un passo dai primi venti paesi. Le disparità economiche tra le prime 20 sono immense. Il PIL pro capite islandese è dieci volte quello della Giamaica. Quel che hanno in comune è un sistema democratico parlamentare, e il non coinvolgimento in alcuna guerra.
Non è questo il caso degli Stati Uniti (al 36° posto in relazione al proprio territorio, ma al 119° lontano da esso) e di Israele (46° a livello nazionale, ma 149° fuori dal proprio suolo), le cui forze armate hanno ucciso un giornalista palestinese per la prima volta dal 2003.
Un ricominciamento di conflitti è andato anche a carico della Georgia (120°) e del Niger, che è franato dal 95° posto del 2007 al 130° di quest’anno. Sebbene abbiano sistemi politici democratici, questi paesi sono coinvolti in conflitti di bassa o elevata intensità e i loro giornalisti, esposti ai pericoli dei combattimenti e della repressione, sono facili bersagli. La recente scarcerazione provvisoria di Moussa Kaka, il corrispondente dal Niger di Radio France International e di Reporter Senza Frontiere, dopo 384 giorni di prigione a Niamey e il rilascio del cameraman Sami al-Haj’s dopo sei anni nell’inferno di Guantanamo servono a ricordarci che le guerre spazzano via non solo vite umane ma anche, e soprattutto, la libertà.

Sotto tiro dei belligeranti o dei governi intrusivi
I paesi che sono stati coinvolti in conflitti violentissimi dopo che non sono riusciti a risolvere seri problemi politici, come l’Iraq (158°), il Pakistan (152°), l’Afghanistan (156°) e Somalia (153°) continuano a essere pericolosissime “aree nere” per la stampa, luoghi in cui i giornalisti sono quotidianamente obiettivi di omicidi, rapimenti, arresti arbitrari o minacce di morte.
Possono finire sotto tiro da tutte le parti in guerra. Possono essere accusati di parteggiare per una frazione.
Qualsiasi scusa sarà usata per sbarazzarsi di “piantagrane” e “spie”.
È il caso ad esempio dei Territori Palestinesi (161° posto), specie la Striscia di Gaza, dove la situazione è peggiorata dopo che Hamas ha preso il potere. Contemporaneamente, in Sri Lanka (165°), dove c’è un governo eletto, la stampa deve fronteggiare violenze che sono solo troppo spesso organizzate dallo Stato.
Nel fanalino di coda troviamo delle dittature – alcune mascherate, altre no – dove i dissidenti e i giornalisti favorevoli alle riforme si adoperano per aprire brecce nei muri che li rinchiudono. L’anno delle Olimpiadi nella nuova potenza asiatica, la Cina (167° posto), è stato l’anno in cui Hu Jia e molti altri dissidenti e giornalisti sono stati incarcerati. Ma ha anche offerto delle opportunità a quei media liberali che stanno cercando gradualmente di liberarsi dal tuttora pervasivo controllo poliziesco del paese.
Essere un giornalista a Pechino o Shanghai – o in Iran (166°), Uzbekistan (162°) e Zimbabwe (151°) – è un’attività ad alto rischio che implica infinite frustrazioni e costanti noie poliziesche e giudiziarie. In Birmania (170°), governata da una giunta xenofoba e inflessibile, i giornalisti e gli intellettuali, persino quelli stranieri, sono stati visti per anni come nemici da parte del regime, e ne pagano il prezzo.

Immutabili inferni
Nella Tunisia (143°) di Zine el-Abidine Ben Ali, nella Libia (160°) di Muammar Gheddafi, nella Bielorussia (154°) di Aleksandr Lukašenko, nella Siria (159°) di Bashār al-Asad e nella Guinea Equatoriale (156°) di Teodoro Obiang Nguema, l’onnipresente ritratto del leader sulle strade e sulle prime pagine dei giornali è sufficiente a rimuovere ogni dubbio sulla mancanza di libertà di stampa.
Altre dittature fanno a meno di un culto della personalità ma risultano comunque soffocanti. Nulla è possibile in Laos (164°) né in Arabia Saudita (161°) se non si conforma alle politiche di governo.
Infine, la Corea del Nord e il Turkmenistan sono degli immutabili inferni nei quali la popolazione è tagliata fuori dal mondo ed è sottoposta a una propaganda degna d’altri tempi. E in Eritrea (173° posto), risultata ultima per il secondo anno consecutivo, il presidente Issaias Afeworki e il suo piccolo clan di nazionalisti paranoici continuano a governare la più giovane nazione dell’Africa come una vasta prigione all’aperto.
La comunità internazionale, compresa l’Unione Europea, ripete senza fine che l’unica soluzione continua a essere il “dialogo”. Ma il dialogo ha avuto chiaramente scarso successo e anche i governi più autoritari sono ancora in grado di ignorare le proteste senza rischiare alcuna ripercussione che non sia il rammarico senza conseguenze del diplomatico di turno.

Pericoli di corruzione e di odio politico
L’altra malattia che divora le democrazie a e fa loro perdere terreno nella classifica è la corruzione. Il cattivo esempio della Bulgaria (59° posto), ancora ultima in Europa, serve da promemoria sul fatto che il suffragio universale, il pluralismo dei media e alcune garanzie costituzionali non sono sufficienti per garantire l’effettiva libertà di stampa. Il clima deve anche favorire il flusso di informazioni e di espressione delle opinioni.
Le tensioni sociali e politiche in Perù (108°) e Kenya (97°), la politicizzazione dei media in Madagascar (94°) e Bolivia (115°) e la violenza contro i giornalisti investigativi in Brasile (82°) sono tutti esempi dei tipi di veleno che intossica le democrazie emergenti. E l’esistenza di persone che violano la legge per arricchirsi e colpiscono impunemente i giornalisti investigativi è un flagello che mantiene molti “grandi paesi” – come la Nigeria (131°), il Messico (140°) e l’India (118°) – in posizioni vergognose.
Alcuni potenziali “grandi paesi” si comportano deliberatamente in modi brutali, ingiusti o semplicemente inquietanti. Gli esempi includono il Venezuela (113°), dove i decreti e la personalità del presidente Hugo Chávez sono spesso devastanti, e il duo russo Putin-Medvedev (141°), dove i media statali e dell’opposizione sono strettamente controllati, e giornalisti come Anna Politkovskaija ogni anno sono uccisi da killer “non identificati” che si rivelano spesso in stretti legami con i servizi di sicurezza del Cremlino.

Resistere ai tabù
Il “ventre molle” della classifica comprende anche i paesi che oscillano tra repressione e liberalizzazione, dove i tabù sono ancora inviolabili e le leggi sulla stampa si rifanno a un’altra epoca. In Gabon (110° posto), Camerun (129°), Marocco (122°), Oman (123°), Cambogia (126°), Giordania (128°) e Malaysia (132°), per esempio, è severamente vietato riportare qualsiasi cosa che si rifletta negativamente sul presidente o sul monarca, o sui loro familiari e amici stretti.
I giornalisti sono regolarmente mandati al carcere in Senegal (86°) e in Algeria (121°), sotto una legislazione repressiva che viola gli standard democratici sostenuti dalle Nazioni Unite. Anche nella repressione online si manifestano questi tenaci tabù.
In Egitto (146°), dimostrazioni lanciate online hanno sconvolto la capitale e allarmato il governo, che guarda ormai a ogni utente di Internet come a un potenziale pericolo. L’uso di filtri su Internet sta crescendo nel corso dell’anno e la maggior parte dei governi repressivi non esita a incarcerare i blogger. Mentre la Cina guida ancora la classifica mondiale del “buco nero di Internet”, mettendo in campo notevoli risorse tecniche per il controllo degli utenti della Rete, la Siria (159°) è il campione mediorientale nella cyber-repressione.
La sorveglianza di internet è così profonda che anche la minima critica che sia pubblicata online prima o poi è seguita dall’arresto. Solo pochi paesi sono risaliti in modo significativo nella classifica. Il Libano (66°), per esempio, si è arrampicato di nuovo su una più plausibile posizione dopo la fine degli attentati con bombe a danno di influenti giornalisti in anni recenti. Haiti (73°) continua la sua lenta risalita, così come l’Argentina (68°) e le Maldive (104°). Ma la la transizione democratica si è arrestata in Mauritania (105°), impedendole di continuare la sua risalita, mentre i magri guadagni di pochi anni fa in Ciad (133°) e Sudan (135°) sono stati dispersi dall’improvvisa introduzione della censura.

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Obiettivo ravvicinato su Europa ed ex URSS
Ci sono pochi cambiamenti in testa all’indice di quest’anno. A parte il Canada e la Nuova Zelanda, i primi 20 paesi sono tutti europei. Nessuno dei 27 membri dell’Unione Europea è fuori della top 60. La pecora nera dell’Europa, la Bulgaria (59° posto), si trascina dietro agli altri a causa della sua incapacità di affrontare con fermezza la corruzione e la violenza di origine sia mafiosa che politica. L’Italia (44° posto) e la Spagna (36°) hanno inoltre ricevuto mediocri piazzamenti a causa, nel primo, di un brutto clima generale e delle minacce e violenze della mafia, e nel secondo, per la paura imposta dal gruppo armato separatista basco ETA.
La Francia (35°) negli ultimi due anni ha detenuto il record europeo interventi di polizia e magistrati in merito alla riservatezza delle fonti dei giornalisti, con cinque indagini, due rinvii a giudizio e quattro citazioni in giudizio.
L’arresto di Guillaume Dasquié di «Geopolitique.com» da parte del servizio segreto interno DST e l’arresto di un cronista di «Auto Plus», accompagnata da perquisizioni a casa sua e nel suo ufficio, dimostrano che la riservatezza delle fonti non è sempre adeguatamente tutelata nella “terra dei diritti umani.”
Il più significativo sviluppo nell’ex periferia sovietica è il deterioramento nel Caucaso, dove due su tre paesi indipendenti – Armenia (102°) e Georgia (120°) – hanno avuto grossi problemi e introdotto stati di emergenza. Diversi giornalisti sono state vittime a causa dell’improvviso scoppio della guerra in Georgia. I paesi dell’Asia centrale continuano ad arrancare in posizioni arretratissime, con l’Uzbekistan (162°) e il Turkmenistan (171°), giunti fra gli ultimi 20 insieme alla Bielorussia (154°). La situazione in Russia (141°), dove la stampa continua a essere oggetto di violenza e di fastidi, è stata poco cambiata dall’elezione a presidente di Dmitrij Medvedev.


Un giornalista ucciso in Messico, 2006.

1 Commento

  1. Paolo 23/10/2008 at 18:54

    Il giornalista ucciso in Messico nella foto è Brad Will di Indymedia New York, ucciso da un paramilitare o un militare in borghese durante gli scontri di Oaxaca

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