Il Grillo, il Principe e la Terza Repubblica

Alcuni consigli a Beppe sui candidati, sul governo e sul nuovo Capo dello Stato
«…
li buoni consigli, da qualunque venghino, conviene naschino dalla
prudenzia del principe, e non la prudenzia del principe da’ buoni
consigli.»
(Niccolò Machiavelli, Il Principe, cap. XXIII)
«…quindi
dateci una mano piuttosto che martellarci, a me e a Casaleggio, di
darci delle martellate in testa, dateci consigli, una mano, abbiamo
bisogno tutti uno dell’altro. Grazie.»
(Beppe Grillo, Comunicato n. 53, beppegrillo.it)
di Pino Cabras – da Megachip.
Quando Niccolò Machiavelli compilò quasi tutti i capitoli della sua opera più famosa, Il Principe,
era il 1513. Mezzo millennio fa. L’autore osservava un’Italia
debilitata, soggetta a mani barbare che la spossessavano. Machiavelli
scrisse il Principe per trovare soluzioni politiche pratiche e per
immaginare un soggetto forte che le mettesse in atto. Pensava che nella
crisi di allora ci fosse comunque un’opportunità.
Esattamente
cinque secoli dopo, l’Italia – in condizioni storiche certo assai
diverse – è di nuovo la preda di poteri che la percorrono, la derubano,
la dividono.
Anche
nella crisi di oggi sorgono opportunità e pericoli affrontati da nuovi
interpreti. Cambieranno presto molti di questi interpreti, muteranno i
partiti politici, e in mezzo a questo tramutare in molti già ora
vogliono dire la loro, esserci, sfiorare i panni che il Principe potrà
vestire. Da qui i consigli, le adulazioni, le demonizzazioni.
Da
qui anche il mio divertimento nell’accostare la frase di Machiavelli e
quella di Beppe Grillo, ossia il soggetto politico che turba il sonno
dei Principi decaduti riparatisi dietro Rigor Montis. Che Principe
avremo nel 2013? Monti? Berlusconi? Bersani? O proprio Grillo? Andiamo
con ordine.
Spero
che tutti abbiano ben presente che le elezioni politiche, ormai
vicinissime, non decideranno solo la sorte di un parlamento e di un
governo. Cambieranno per prima cosa il Principe che abita al Quirinale.
Il quale Principe conta parecchio. Abbiamo visto quanto egli sia stato
decisivo per imporci il governo di tecnocrati neoliberisti, scelti fra i
minori economisti della nostra epoca, e quanto abbia trafficato per
mettere in mani lontane la già poca sovranità che avevamo. La
combinazione fra nuovo Presidente della Repubblica, nuovo parlamento e
nuovo governo avrà un effetto durevole. Se non fosse ancora chiaro, lo
ribadisco: sarà in questi mesi che si deciderà l’impronta della Terza Repubblica.
In
Italia ricorrono i cicli ventennali, e durano così tanto perché chi li
guida vince all’inizio. Monti e Napolitano hanno preparato il terreno
per un nuovo ciclo ventennale, anche se non lo amministreranno certo
tutto loro, bensì Bersani, Vendola e gli altri vassalli dell’Impero. Il
Fiscal Compact, il patto di bilancio europeo, è appunto un vincolo
ventennale, che loro hanno già accettato. È un incubo lunghissimo, al
termine del quale, rispetto a mezzo millennio fa, mancheranno solo i
lanzichenecchi. E non è nemmeno detto che ce li faranno mancare.
Chi si oppone a questo incubo?
Si
oppongono forse i partiti che hanno ereditato l’elettorato di sinistra?
No di certo. Hanno consegnato milioni di elettori, docili come
agnellini, agli strateghi di scuola Goldman Sachs e Bilderberg,
da Prodi a Draghi a Monti. Altri milioni di elettori, che a un certo
punto hanno capito l’andazzo, hanno iniziato a non votare. Altri ancora,
specie gli intellettuali, hanno giocato troppo a fare l’ala sinistra del centrosinistra.
Fanno errori infiniti, ripetono sempre le stesse mosse e imparano dagli
errori troppo lentamente rispetto all’accelerarsi della Storia. Hanno
pure bei programmi, ma caos organizzativo totale.
I
partiti di destra che hanno orbitato intorno a Berlusconi – nel
frattempo – sono nel marasma. Ci provano pure a sottintendere un mondo
senza Monti, senza questa Europa dittatoriale, senza Fiscal Compact. Ma
si vede da lontano che non hanno uno straccio di idea, fino a subire il
ritorno della mummia di Arcore.
Poi
c’è Grillo. Che non è un fungo spuntato dal nulla. L’attore genovese ha
guadagnato il suo primo sostrato di popolarità dalla sua originaria
caratura di personaggio televisivo, ben oltre vent’anni fa, e ha
integrato questo patrimonio con lo specifico del teatro, infine lo ha
riportato sul terreno di internet e poi nelle urne elettorali. È stato
un lavoro lungo. Lo ha rivendicato lui stesso: «Io
ho cominciato vent’anni fa girando il mondo, visitando laboratori,
intervistando ingegneri, economisti, ricercatori, premi Nobel. Ho rubato
conoscenze ai grandi. Mi sono informato, mi son fatto un culo così,
anche se molti mi prendono per un cialtrone improvvisatore. E ora questi
pensano di metter su movimenti in quattro e quattr’otto.»
Non posso dargli torto.
C’è
stato dunque un lavoro organizzativo e ideologico, in cui Grillo ha
costruito una narrazione, affidandosi saldamente a un pilastro
patrimoniale, la sua azienda, a suo agio con i meccanismi della società
dello spettacolo. Da un certo punto in poi Grillo non ha più mosso un
solo passo senza il suo socio di ferro, Gianroberto Casaleggio, anch’egli fermissimo nel costruire un partito-azienda.
Mentre il partito-azienda di Berlusconi voleva far durare eternamente
gli anni ottanta del XX secolo, il partito-azienda di Grillo e
Casaleggio ha voluto promettere in anticipo gli anni ottanta del XXI
secolo. Due narrazioni opposte, ma entrambe lontane dalle forme di
attività politica del partito-massa novecentesco, ed entrambe
consapevoli che siamo dentro un grande show. Grillo ha via via rafforzato il suo efficiente modello imprenditoriale in cui c’è sinergia fra il suo blog, gli spettacoli, un certo networking
su temi politici, sociali e ambientali che esalta protagonismi
giovanili e buone pratiche amministrative, fino a portarlo in politica
nel Movimento Cinque Stelle.
Per
i temi che propone, e per il fatto che si oppone frontalmente e senza
compromessi a un ceto politico terribilmente screditato, il Cinquestelle
è diventato il punto di coagulo dell’opposizione, l’unico
attualmente in grado di portare in Parlamento rappresentanti non
organici al “Pensiero Unico”. La creatura ha raggiunto elettoralmente e
mediaticamente una massa tale da affascinare nuovi votanti disposti a
sospingerla in alto. In questo modo, Grillo e Casaleggio si trovano
buone carte in mano da giocare per la partita della Terza Repubblica.
Finora hanno scelto di non cambiare il loro gioco. Poiché la partita si
disputa adesso, le contraddizioni in seno ai Cinquestelle si notano di
più. Ad esempio la retorica «uno vale uno» e la «democrazia diretta»
cedono il passo al «comunicato 53» del 29 ottobre 2012, nel quale Grillo dichiara: «io devo essere il capo politico di un movimento»,
laddove impone una regola inderogabile per decidere chi si può
candidare: «chiunque sia stato iscritto a una lista comunale o
regionale», e nessun altro.
Poi
si scopre invece che sono state concesse eccome delle deroghe, e si
sono posizionati bene nelle liste anche candidati che non avevano mai
fatto parte di liste locali, mentre altri in analoghe situazioni o
perfino ex candidati non potevano partecipare, stoppati dallo staff dei
capi. Misteri del Casaleggium. Come si spiegano? Quale questione di fondo sollevano? C’è solo da capire, non da gettare la croce su qualcuno.
La questione è semplice. Nemmeno i Cinquestelle si sono finora sottratti alla «legge ferrea dell’oligarchia»
dei partiti, enunciata nel 1911 da Robert Michels, un politologo
tedesco. Cosa dice, in sostanza, questa regola secolare? A dispetto di
una struttura democratica aperta alla base, nel partito tende sempre a
formarsi una struttura comandata da un numero ristretto di dirigenti che
godono di risorse informative, finanziarie e organizzative
asimmetriche. Le gerarchie possono essere esplicite o implicite, palesi o
in ombra, ma pesano comunque in modo decisivo. Questo vale per grandi
partiti massa, ma diventa stridente in una formazione che rivendica di
avere un “non-statuto” e si rimette solo alle regole del codice civile
sulla proprietà dei marchi, proprio mentre spende ogni parola possibile
in favore della “democrazia diretta”. Tutto ciò può funzionare in
un’azienda, può procedere bene in una piccola comunità. Ma quando
la dimensione dell’azione politica si estende a un paese di sessanta
milioni di abitanti, la democrazia rappresentativa è l’unica cosa che
può reggere. 
Lo stesso Grillo lo ammette: «Fosse
dipeso da me, ci saremmo fermati ai comuni e alle regioni, il movimento
è nato dimensionato sulle realtà locali. Il Parlamento è fatto su
misura dei partiti. Ma ora come fai a deludere le aspettative di tanta
gente? Ci costringono a presentarci alle politiche.»
L’ideologia dell’«uno vale uno» su questa scala non funziona dunque più, amen.
Certo, Grillo ribadisce che non vuole portare in parlamento chi ha «il
Dna corrotto dall’organizzazione-partito. E poi ci inventiamo un
meccanismo di democrazia partecipativa per far governare i cittadini»
.
Ma in attesa di tutto questo, nella realtà effettuale il capo è lui. E
lui decide chi c’è e chi non c’è. La decisione avviene all’interno di un
bacino ristretto di candidati, determinato con regole dichiarate
rigidissime e nondimeno occasionalmente aggirate con il consenso del
vertice. Le «parlamentarie», con il voto di alcune decine di migliaia di
italiani, ratificano.
Spettacolare
contraddizione: un partito che esalta la democrazia diretta contro la
democrazia rappresentativa accondiscende pragmaticamente a meccanismi di
selezione fra pochi cittadini strettamente vigilati da un’élite
circoscritta.
Militanti e elettori del M5S farebbero bene a trarre una prima lezione: a questi livelli, la rappresentanza
non consiste nel fare di un parlamentare un “dipendente” che agisce
solo da portavoce. I padri costituenti c’erano già arrivati senza
sbatterci il muso. Ora, Grillo ha fatto un pantheon dei “santi laici”,
includendo tra gli altri Aldo Moro. Benissimo. Ma Moro e gli altri
costituenti scrissero non a caso l’articolo 67 della Costituzione: «Ogni
membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue
funzioni senza vincolo di mandato». Il terreno di azione costituzionale possibile oggi è questo e non altro.
Perciò
il meccanismo di selezione della rappresentanza scelto da Grillo e
Casaleggio – e ratificato tra i mugugni dagli attivisti cinquestelle –
insiste narrativamente a dire “democrazia diretta”, ma non la può
attuare davvero, con il risultato di produrre delle liste terribilmente modeste.
E allora mi chiedo: come potrebbe l’Italia, pur stufatasi di Monti e
disgustata da Berlusconi, affidarsi a queste liste? Le recenti elezioni
regionali siciliane ad esempio, hanno sì dimostrato che Grillo è in
boom, ma non intercetta gran parte dell’astensione. Col risultato che
governano altri.
Stanti così le cose, non ci dovremmo attendere un risultato diverso su scala nazionale.
Ecco
il punto: voglio credere ancora che Grillo non si accontenti di un
risultato modesto e colga invece l’occasione storica, per quanto essa
faccia tremare i polsi. Prendo spunto dal suo appello, quando chiede: «dateci consigli, una mano, abbiamo bisogno tutti l’uno dell’altro». Spero che si tratti della «prudenzia del principe» che fa sorgere i «buoni consigli».
Il consiglio è semplice, caro Grillo: non limitarti a dire «sono il capo politico di un movimento», cioè l’ennesimo (ancorché originale) capopartito, alla guida di un ennesimo (seppur eccentrico) partito.
Prova invece a esercitare una leadership più vasta e più utile al sogno che hai dichiarato. Ricordi la domanda di Travaglio: «Come te lo immagini, il prossimo Parlamento?» E tu: «Me
lo sogno pieno di rappresentanti di tante liste civiche, movimenti di
gente perbene. Ragazzi, professori, esperti. I nostri di Cinquestelle, i
No-Tav, quelli dell’acqua pubblica, dei beni comuni, gli altri
referendari.»
Bello, ma finora hai invece determinato la formazione di liste dalle dinamiche molto partitiche, troppo lontane da quel sogno.
Perché
è accaduto? I recenti successi elettorali hanno attirato frotte di
“soccorritori del vincitore”: gente incontrollabile, in grado di
corrompere irrimediabilmente la forza politica plasmata finora dal
fondatore. La decisione dal vertice dell’azienda – chiudersi – è stata
una decisione d’emergenza, «sennò ti entra Toto u curtu e poi ce lo hai tutta la vita dentro, Toto u curtu», dice Grillo.
La cosa si comprende perfettamente. Un leader che ha costruito una sua reputazione
nell’arco di decenni agisce d’imperio per preservarla, perché è la
risorsa chiave che alimenta il motore: quella reputazione gli consente
di avere l’autorevolezza e il consenso
per decidere in qualità di dirigente, di garante, di tessitore, di
iniziatore. Una classica democrazia del «carisma», più che una
futuribile democrazia di «cliccattivisti».
E
allora, mi chiedo, perché non usarla più largamente e meno
ipocritamente – e meno patrimonialmente – questa autorevolezza? Cos’ha
in mente Grillo, ora? Forse non il governo. Forse vuole limitarsi alla
testimonianza, con poche decine di parlamentari, in attesa di tempi
migliori. Ma quali tempi migliori? Se la Terza
Repubblica nascerà come lo zombie dell’attuale sistema, il Paese andrà a
fondo in poco tempo. Serve una forza di governo, o almeno
un’opposizione forte e non marginalizzata.
E qui vengo a sviluppare meglio il mio personalissimo consiglio.
Il
riferimento va a un esempio storico di alcuni decenni fa, che ci può
ispirare senza dimenticarci che viviamo in tempi molto diversi da
allora, con altri partiti, altri scopi, altre idee, ecc. È solo un utile
esempio funzionale per vedere come può operare la rappresentanza.
Ebbene, chi era il punto di coagulo dell’opposizione negli anni settanta? Era il PCI,
uno strano partito che pur essendo di massa, a un certo punto decise
che non poteva bastare a se stesso, e perciò alle elezioni presentava
candidati indipendenti. Naturalmente questi condividevano molte idee di
quel partito, non andavano certo in campo avversario, ma avevano
biografie autenticamente svincolate ed erano in grado di rappresentare
interessi che il PCI non raggiungeva con le sue sole forze. La
cosiddetta Sinistra Indipendente formava perfino un suo gruppo parlamentare autonomo,
che portò alle Camere voci autorevoli, competenti, oneste,
rappresentative, perfettamente in grado – una volta concluso il mandato –
di non impigliarsi per sempre al “mestiere” politico. Questi
parlamentari contribuirono tra l’altro a scrivere ottime leggi, cosa
niente affatto secondaria.
Ebbene, il Movimento Cinque Stelle, lo ripeto, è di fatto il punto di coagulo dell’opposizione
dell’oggi e dell’immediato domani, e ha una straordinaria
responsabilità storica, che anche in bocca a Beppe Grillo suona con
queste esatte parole: «Ma ora come fai a deludere le aspettative di tanta gente?»
Se
la sua preoccupazione è questa, allora diventa cruciale, nel brevissimo
tempo che rimane da qui alle elezioni, presentare liste migliori di
quelle varate con la consultazione infra-partitica delle
«parlamentarie». Non c’è tempo per fare una grande selezione di massa.
C’è tempo invece per guardarsi intorno fra «rappresentanti di tante liste civiche, movimenti di gente perbene. Ragazzi, professori, esperti» (riuso le parole di Beppe). I Cinquestelle li conoscono già: «I No-Tav, quelli dell’acqua pubblica, dei beni comuni, gli altri referendari.» Scelga
Grillo alcune decine di «saggi» indipendenti da presentare in vista
delle elezioni in aggiunta al quadro delle liste attuali
:
alcuni da candidare come parlamentari, altri come possibili ministri,
altri come autorevoli garanti. L’esposizione di Grillo sarebbe calibrata
e cesserebbe di essere una sovraesposizione. La presenza di
parlamentari indipendenti e non trasformisti sarebbe il seme di una
nuova democrazia. Diventerebbe il punto di confluenza di una forza
popolare in grado di dirigere e riformare profondamente la Repubblica.
Troverebbe un’Italia disposta a una reale alternativa. Darebbe una
prospettiva a milioni di elettori altrimenti portati ad astenersi.
Il
programma? Con pochi punti ben scritti e ben difesi ci ritroveremmo a
milioni. E sarebbe un programma opposto agli attuali partiti.
Disegnerebbe una Terza Repubblica lontana anni luce dallo sfascio
odierno.
Accennavo
al fatto che nel 2013 si eleggerà il nuovo Capo dello Stato. Pur non
essendo l’Italia una Repubblica presidenziale, il collegio elettorale
che deciderà chi va al Quirinale si formerà adesso, a partire dalle
cabine elettorali. Alla più alta magistratura perché mai proporre un Di
Pietro, così consumato dai difetti partitocratici?

Non sarebbe forse più adatta una figura come quella del magistrato Roberto Scarpinato?
A proposito dei machiavellismi delle classi dirigenti italiane,
Scarpinato – oltre ad avere la migliore biografia professionale per il
primato della legge – è l’autore de «Il ritorno del Principe»,
un ritratto spietato di queste classi dirigenti da cambiare. Io lo
proporrei, con forza, Scapinato, per far capire quanto si vuole cambiare
il Paese, in antitesi con i presidenti che insabbiano le inchieste
sulla criminalità politico-mafiosa. Sarebbe una direzione chiara, e
coerente con la storia della migliore opposizione allo sfascio di questi
anni. Divulgherebbe ancora meglio la buona novella: con noi si cambia
davvero, e lo si fa con il volto migliore della legge.

Questo
per il Presidente della Repubblica. E per il Presidente del Consiglio,
invece? Grillo non vuole fare il candidato premier. Ma il ruolo di mero
garante gli sta strettino assai. Nel momento in cui facesse la grande
operazione di apertura agli indipendenti, anche questa questione si
potrebbe rapidamente discutere e risolvere. Si vedrà.
Come
si sarà ben capito, nel dare questi consigli molto personali barcollo,
perché ho ben chiare le speranze suscitate in questi anni da chi, come
Grillo e altri, si è battuto per una rivoluzione politica e culturale,
ma ho altrettanto chiare le difficoltà e i vicoli ciechi della dura
realtà, così come il succedersi di speranze a buon mercato. Oscillo
insomma fra passione politica, volontà di cambiare, e ragionevole
diffidenza. È colpa del Minestrone. No, non la
pietanza. È un film che ho visto tempo fa e di cui racconto – anche se
non si dovrebbe – il finale. Fu girato nel 1981 da Sergio Citti con una
strana ispirazione pasoliniana, e un cast che comprendeva anche Roberto
Benigni e Giorgio Gaber. Quest’ultimo nel film
interpreta il ruolo di un santone molto ieratico che fa sperare la gente
in una “Terra Promessa”. Molto prima di Forrest Gump, Gaber inizia a
muoversi per le strade, seguito da una folla crescente.
Mamme speranzose gli fanno baciare i loro pupi e lo seguono anch’esse,
assieme a tanti affamati in viaggio per “qualcosa di meglio” che non
c’é. Il viaggio a piedi porta il profeta e la processione di seguaci
fino a un assurdo ghiacciaio alpino, che apre l’orizzonte ma chiude
drammaticamente la strada. A quel punto gli chiedono: «Ma dove ci hai
portati?» E Gaber: «E che cazzo ne so?». Inizia a ridere follemente. Finisce il film

Perciò mi consola che nell’intervista che qui ho tanto citato Beppe Grillo dica: «Se
falliamo, ci appendono per i piedi: almeno quelli che si ostinano a
pensare che l’Italia la salva l’uomo della Provvidenza che mette le cose
a posto mentre loro delegano e si disinteressano. Ma dai, ragazzi,
basta coi leader e i guru, diventiamo adulti»
. Beppe chiama tutti alla responsabilità. Mi spaventa solo quando dice: «io getto le basi, faccio il rompighiaccio», perché rivedo il ghiacciaio del film. Ma è solo un’assonanza.  

Fonte: http://www.megachip.info/tematiche/beni-comuni/9440-il-grillo-il-principe-e-la-terza-repubblica.html.

Scrivi un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.