Iran e Hollywoodismo: un progetto per cambiare la fabbrica dei sogni

di Pino Cabrasda Megachip.

Proprio mentre abdica il papa, è per me davvero ironico rientrare da Teheran,
tornare da una modernissima e brulicante metropoli mediorientale che
discute di tecnologie e “soft power”, per ritrovarmi invece in un
Occidente monopolizzato dalle discussioni sul potere dei propri capi
religiosi, impegnati a ripetere rituali antichi. Quando ci sembra un mondo alla rovescia non è colpa del mondo: lo guardavamo con idee sbagliate.
Faremo
bene a prendere sul serio l’Iran per ragioni molto diverse da quelle
che vediamo nei nostri media e nei film hollywoodiani
. La
settimana che ho appena trascorso a Teheran è stata illuminante. Mentre
nella capitale iraniana si celebrava il 31° Fajr International Film
Festival, la manifestazione che ogni febbraio propone al mondo lo
sguardo iraniano sul cinema, ho partecipato alla conferenza “Hollywoodism”,
che da tre anni in qua affianca la manifestazione principale, assieme a
intellettuali, giornalisti, cineasti, produttori di tutto il mondo,
tanti statunitensi. Se il Festival è la vetrina più nota, Hollywoodism è
ormai il forum prediletto dagli organizzatori iraniani: alle tavole
rotonde partecipano ministri, viceministri, direttori culturali,
registi, critici cinematografici, tutti molto desiderosi di confrontarsi
con gli ospiti internazionali. Come mai tanta mobilitazione? Cosa
nascerà di nuovo da loro e da noi? Ecco il mondo alla rovescia ed ecco le sorprese del futuro.
Le classi dirigenti iraniane non puntano solo alla padronanza scientifica dell’«hard power» (nelle tecnologie militari, industriali, spaziali e nucleari). Vogliono fare fruttare massicciamente anche il «soft power»:
intendono cioè esercitare un’egemonia con ambizioni globali attraverso
risorse intangibili nel campo della cultura, dei valori,
dell’immaginario collettivo e nella costruzione di una nuova politica
con inedite alleanze. Noi che in Occidente viviamo in una bolla
mediatica rischiamo di non capire l’importanza di questa nuova realtà
con cui faremo i conti
. Se usciamo dalla bolla scopriamo che
quella di Teheran non è affatto una missione impossibile. E capiamo
anche che è tremendamente interessante perfino per chi, come noi, ha
valori diversi da quelli della Repubblica Islamica dell’Iran.
L’immagine in voga dell’Iran in Occidente è quella di un paese isolato, mentre invece è il protagonista della rifondazione del Movimento dei paesi Non Allineati, 120 Stati che rappresentano la maggior parte della popolazione mondiale e dell’economia globale.
Da noi quasi neanche un rigo su tutto questo importante viavai, di cui
Teheran è già il crocevia. L’Iran non è un paese separato dalla
«comunità internazionale». È un paese colpito duramente dalle sanzioni
di pochi. Gli stessi poteri che a noi impongono la dittatura dello
spread.
Hollywoodismo
è un concetto indovinato, una sintesi folgorante, una denominazione che
descrive l’anima della più penetrante produzione di immagini in
movimento nella storia dell’umanità, quella in cui siamo immersi. Le
autorità iraniane, a differenza di altri sistemi politici – che hanno
sempre sottovalutato l’importanza politica primaria della fabbrica dei
sogni e delle distorsioni incentrata sull’immaginario nordamericano –
hanno capito che la questione del sistema della comunicazione è centrale, e richiede un’interpretazione d’insieme.
Se
diciamo Hollywoodismo, come per tutti gli «-ismi», rischiamo di
cristallizzare una materia intellettuale che invece si muove. Tuttavia,
l’espressione fa capire che siamo di fronte a un paradigma culturale.
Per decenni questo paradigma ci ha sovrastato e inglobato, e molti non
lo hanno riconosciuto. A Teheran e altrove (penso all’Argentina, e non solo) lo hanno invece individuato bene. Perciò propongono un altro modello, che rimanda al futuro e che non vogliono costruire da soli.
La
critica al paradigma ha trovato buoni argomenti: alla conferenza sono
state smontate pezzo per pezzo le più recenti perle propagandistiche del
cinema d’Oltreoceano, come il tanto decantato “Argo” di e con Ben Affleck, il grottesco “Dittatore” con Sacha Baron Cohen, il violentissimo “300” di Zack Snyder, il film in favore della tortura “Unthinkable” con Samuel L. Jackson, nonché l’orripilante “Jerusalem Countdown”,
una produzione del cinema cristianista che va per la maggiore tra i
fanatici integralisti della Bible Belt americana. Ma in ballo non c’è
solo una reazione alla produzione industriale di bombe islamofobe e
antipersiane. C’è di più.
Cosa ci sia, lo chiedo a uno dei partecipanti alla conferenza, William Engdahl, giornalista statunitense, autore di brillanti editoriali su Global Research
e profondo conoscitore delle politiche americane in Medio Oriente. Qual
è la scoperta che oggi si fa strada rispetto a Hollywood? «Il sistema
Hollywood ha formato una delle armi più efficaci fra quelle volte a
estendere un’egemonia americana globale», afferma Engdahl, «e questo è
avvenuto sin dall’avvento del film muto e ai tempi del matrimonio dei
film di Hollywood con i concetti di Propaganda sviluppati durante la
Prima guerra mondiale da un gruppo voluto dal presidente Woodrow
Wilson». Chi faceva parte di questo gruppo? Engdahl fa un nome
importante: Edward Bernays. Nipote di Sigmund Freud, Bernays è
stato il capostipite dei moderni “spin doctor”, e fu – nell’ombra – una
delle più influenti personalità del XX secolo. «L’espressione “fabbrica del consenso”
è stata coniata proprio da Bernays», puntualizza Engdahl. È passato
quasi un secolo, ma tra la “fabbrica” hollywoodiana e gli interessi
strategici del mondo petrolifero e militare USA non c’è divorzio in
vista: il matrimonio è ancora solidissimo.
Naturalmente il sodalizio ha vissuto tante fasi e ha cambiato pelle. Ad esempio, dal 1953 al 1999 operava la USIA
(United States Information Agency), l’agenzia che si prefiggeva di
«influenzare le attitudini e le opinioni del pubblico di altri paesi in
modo da favorire le politiche degli USA […] nonché di raccontare
l’America e le politiche gli obiettivi americani ai popoli di altre
nazioni in modo da generare comprensione, rispetto e, ove possibile,
identificazione con le proprie legittime aspirazioni». Prima e dopo la
USIA hanno operato anche altre agenzie e branche governative, note o
perfino occulte, ma tutte hanno coltivato molto da vicino la produzione ideologica hollywoodiana,
secondo una logica sistemica. John Kleeves aveva definito il cinema USA
come una sorprendente e strana “cinematografia di Stato”, abile a
ottenere un successo economico proprio fra le masse di spettatori che
manipolava.
Quando
l’Italia sconfitta cadde sotto le clausole segrete dell’armistizio nel
1943, non dovette solo cedere il suolo alle basi USA e impedirsi di
sviluppare certe industrie: senza alcun vincolo di reciprocità, si aprì
alla produzione audiovisiva americana, fece invadere i propri cinema dai
film doppiati, lasciò inondare la propria programmazione televisiva dai
format americani, e così via. Altrettanto accadde in altri paesi. Le
industrie audiovisive nazionali e il cinema europeo e furono soggiogati
in pochi decenni. Si perfezionò una progressiva colonizzazione dei sogni di sterminate masse di spettatori. Interi movimenti politici popolari non capirono che tutto ciò svuotava dall’interno ogni loro pretesa di sovranità. Per
un tipico critico cinematografico occidentale tutto questo può sembrare
una legge di natura. Per un tipico dirigente iraniano, no
. A
Teheran, dove alla sovranità ci tengono davvero, l’allarme è dunque
scattato. La novità è che quel dirigente iraniano vuole incontrare genti
diverse accomunate dalla stessa idea: quella per cui l’identificarsi
con gli Studios non è un dato acquisito per sempre.
Lo
stesso dirigente iraniano magari deve tenere conto delle aspre lotte
politiche del suo paese, che caricano pesanti sconfitte sui perdenti. Le
condanne penali subite da alcuni cineasti nell’ambito della battaglia
politica in Iran lo testimoniano. Ma le contraddizioni non ci devono far
smarrire l’orizzonte della vicenda più generale. Abbiamo forse le carte
in regola, in termini di libertà, in provincia di Hollywood? Niente
affatto.
Proprio
il canone estetico e ideologico hollywoodiano è passato per una
tempesta giudiziaria che a un certo punto lo ha cambiato – spietatamente
– per sempre. Durante il maccartismo, negli anni quaranta e cinquanta, la caccia ai comunisti fu solo una scusa, un paravento. Il bersaglio grosso era invece un altro, ossia le produzioni che non si conformavano agli standard della fabbrica: ogni
deviazione fu epurata, i dissidenti furono incarcerati, i registi e i
produttori scomodi furono intimiditi o esiliati, gli autori e attori
definitivamente spaventati con provvedimenti esemplari e carriere
spettacolarmente stroncate
. Da allora il cinema è quello normalizzato che conosciamo, con una progressiva standardizzazione delle trame dei blockbusters e la sostanziale affermazione di un quadro di valori che non può discostarsi dall’American way of life né dalle visioni dell’Altro più comode per costruire un’immagine del Nemico.
Anche
se nessuna persona di buon senso può disconoscere la qualità di quella
“fabbrica”, il valore dei suoi attori, la sua capacità di reclutare
autori dalla scrittura raffinata e potente, non si deve rinunciare a
smascherare i suoi limiti e le sue operazioni più manipolatrici. Per
criticare una simile industria serve una visione culturale altrettanto
potente, perché a suo modo Hollywood è un luogo che premia il talento.
In cambio del disegno generale a cui collaborano, i talentuosi ottengono
tanto, tantissimo. Gli autori e attori hollywoodiani possono far
sfoggio di un anticonformismo che nel resto della
società statunitense è inibito. E viene premiata la loro cultura. Lì non
regnano impresari mediatici subdominanti come Silvio Berlusconi: non ti
basta avere un bell’aspetto, non fai il salto da un calendario osé al
grande giro, non muovi un passo se non hai respirato a fondo le pagine
di Shakespeare, che anche nel cinema portano una nozione elevata della drammaturgia, un forte mestiere insieme politico e artistico. Quel che devi sapere è fin dove puoi spingerti davvero e a che punto devi fermarti.
Non
c’è un Ministro della propaganda che emani le regole, ma il manuale di
autocensura c’è lo stesso, di fatto. Ai tempi del maccartismo lo aveva compilato la sceneggiatrice Ayn Rand,
mobilitando tutta la parte conservatrice di Hollywood. Possiamo dire
che il manuale ha permeato tutta la produzione, riportando abilmente
anche la parte “progressista” dentro il proprio recinto, con l’aiuto
delle apposite agenzie governative.
I valori del modello americano si riversano in uno stampino che rende omogenei quasi tutti i film importanti di quella produzione.
I personaggi e le ambientazioni storiche cambiano, ma lo sviluppo
narrativo segue perlopiù il medesimo cliché: la presentazione del
«protagonista», i meccanismi che fanno scattare l’«identificazione»
dello spettatore, la «ricerca dell’oggetto agognato», la
caratterizzazione dell’«antagonista», il «conflitto», il presentarsi di
uno «stato d’eccezione» che giustifica atti straordinari e infine la
«risoluzione». Se a questi ingredienti si aggiunge una fuga dal reale,
la mancata rappresentazione di intere condizioni sociali, una profonda
adulterazione dei fatti storici, un’identificazione del “villain”
con un nemico corrente da disumanizzare, una logica individualista che
va a ripararsi sotto l’ombrello dei tecnici che risolvono le situazioni
eccezionali, abbiamo l’Hollywoodismo. E abbiamo, per contro, un immenso
spazio lasciato libero per un cinema che l’Hollywoodismo non potrà
contenere. Chi può riempire questo spazio?
Strano
chiederselo a Teheran. L’Iran non è forse il luogo dell’oscurantismo?
Sai, le cose che si affermano in Occidente sulla condizione della donna,
ecc.
Quasi
per distrarmi, lo domando a una giornalista americana il cui nome, per
un italiano, ha perfino echi cinematografici stranamente familiari, Monica Witt.
Attendo che Monica termini un’intervista in inglese con alcune
sorridenti studentesse iraniane. Sono ragazze molto rappresentative,
devo dire: oltre il 60% degli studenti universitari iraniani sono donne.
Si coprono il capo con i loro foulard allo stesso modo in cui faceva
mia nonna in Barbagia con il suo “muncadore” sino a pochi anni fa. A
differenza di mia nonna, però, armeggiano con degli iPhone 5 e con gli
esposimetri delle loro fotocamere di ultima generazione. Realizzo che la popolazione iraniana, essendo costituita per il 70% da giovani, è composta in prevalenza da “nativi digitali” che hanno familiarità con il web, in proporzioni esattamente rovesciate rispetto all’Italia.
Beh, ma sai, quante donne
sono star nel cinema, da noi, no? «Sei proprio sicuro di questo?»
esordisce la Witt, che annuncia: «io avrei dei dati un po’ diversi, sul
ruolo delle donne nella galassia hollywoodiana».
Quali?
«Una
fonte autorevole, l’American Psycological Association (APA),
l’associazione di categoria degli psicologi USA, ha stilato un Rapporto sulla sessualizzazione delle minorenni,
che – fra tante altre cose – segnala che fra i primi 101 “film per
tutti” girati nel periodo 1990-2004, il 75% dei personaggi erano maschi,
l’83% delle persone nelle folle erano maschi, l’83% dei narratori erano
maschi, e solo il 28% dei personaggi che proferivano parola erano
donne. Il rapporto è del 2010, un anno in cui le statistiche dicono che
le donne sono il 51% della popolazione USA».
Monica
Witt sorride amaramente e si aggiusta il coloratissimo foulard sui
capelli, mentre mi parla proprio dei vestiti delle attrici: «Che dire
poi del ritratto delle donne hollywoodiane? Gran parte dei film di
Hollywood presenta un campionario limitatissimo di ruoli femminili, che
in genere consiste in personaggi ipersessualizzati che hanno poca
profondità. Nella maggioranza dei film prodotti dalle major, si tratta
di femmine giovani, attraenti, molto più svestite delle controparti
maschili. Sono davvero pochissimi i film che abbiano in primo piano
forti personaggi femminili intellettuali o donne leader. L’APA ritiene
che queste rappresentazioni contribuiscono in modo preoccupante
all’oggettivazione e sessualizzazione delle donne nella società».
E nei cartoni animati è perfino peggio. Quali sono le conseguenze?
«Per
i bambini e le bambine sono devastanti. Per le giovani donne in
generale creano un senso di inadeguatezza rispetto a standard incentrati
sul miglioramento legato alla sessualità delle star». Una delle ragazze
che assiste al colloquio con Monica ha una benda sul naso, fresca di
operazione, come moltissime sue coetanee iraniane che ricorrono al
chirurgo plastico per ritoccarsi il profilo. Ha concentrato sul volto lo
stesso inseguimento dei modelli che molte occidentali distribuiscono su
tutto il corpo. Non so se è una sublimazione di Hollywoodismo. Sento
però che la Witt, pur non proponendo ricette alternative, segnala con
forza l’esigenza di un cinema che non sia così programmaticamente
orientato alla dissoluzione delle società sotto
l’ombrello di un’apparente “liberazione”. Il problema non è solo
americano o solo iraniano. Ha un respiro mondiale.
Quali progetti allora? Ne parla Nader Talebzadeh,
un regista iraniano che ha a lungo insegnato anche alla Columbia
University, e al quale le autorità di Teheran intervenute prestano molto
ascolto. Talebzadeh è l’autore di “The Messiah”, un film che
presenta la figura di Cristo (importantissima anche per l’Islam) secondo
la prospettiva musulmana. Il nuovo progetto a cui il regista si dedica
mira a creare una Organizzazione non governativa su scala
mondiale, dedicata a un’agenda mediatica semplicemente «diversa» da
quella incentrata sull’immaginario hollywoodiano. La base sarà «un’associazione internazionale composta da intellettuali indipendenti di diverse nazioni e culture» che lancerà una campagna mondiale di raccolta fondi e mezzi logistici, e stabilirà diversi progetti audiovisivi e «nuove reti
fra artisti e liberi pensatori di tutto il mondo», orientati ad
acquisire i mezzi oggi negati dall’attuale sistema«per un lavoro diretto
a contatto con grandi masse».
Il motore dei nuovi media è dunque acceso in Iran,
un luogo che percepisce se stesso al centro di una Rivoluzione
spirituale autentica. La cosa sorprendente è che l’Iran non è il luogo
dei veli, ma – seppure in modo controverso – un luogo che si apre al
mondo. Molti veli dobbiamo toglierli invece alla nostra falsa coscienza occidentale,
per arrivare a capire che la nostra narrazione del pianeta non è
universale, e che deve accogliere come un dono prezioso lo sforzo di
raccontare la vita degli uomini e delle donne nel mondo in modo diverso.
Anche da noi migliaia di artisti e di attivisti potrebbero coalizzare i
loro sforzi. Serve un progetto. Il seme del progetto è partito in un terreno inatteso.
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