TINA contro TINA. Europa e alternative

di Pino Cabras – da Megachip.
Siamo una lega di maledette Cassandre.
Nel
pieno della crisi che sconvolge da anni interi sistemi, una crisi non
ancora entrata nella sua fase peggiore (diciamolo subito anche se non ci
credete, se no che Cassandre saremmo?), vediamo dissolversi le mappe
che abbiamo usato finora per orientarci in mezzo ai fatti: mappe
geopolitiche, mappe economiche, storiche, culturali, cognitive, sociali.
Tutte stanno cambiando rapidamente.
Sentiamo
con curiosità e sgomento i balbettii di chi ormai non capisce dove
stia, e pensa che tutto si aggiusterà come prima, che in fondo staremmo
solo stazionando in una fase bassa dei soliti cicli economici e
finanziari, che basterebbero adattamenti modesti, in attesa del Godot
del nostro tempo, la famosa crescita: il feticcio-mantra-esorcismo che
ai nostri occhi e alle nostre orecchie fa diventare patetico e non
credibile chi la evoca, e rende insopportabile e criminale il “pensiero
unico”, da trent’anni riassunto nella formula “TINA: There Is No Alternative”.

1. COSA SI PUÒ CAMBIARE
Scopriamo
con più interesse e curiosità l’esplodere di riflessioni, dibattiti,
proposte, articoli di chi alla TINA si oppone, e presenta altre visioni
della crisi, soprattutto perché l’ha saputa prevedere. È una fase ricca e
confusa, in cui si sommano creatività, visioni, progetti a lungo
trattenuti, come pure fughe in avanti e ripensamenti.
Pecchiamo
spesso di orgoglio per aver previsto molto bene la dimensione della
crisi sistemica, e allo stesso tempo ci intristiamo alla vista della
dispersione che ci circonda, in mezzo a un caos di linguaggi, fra masse
di senza-potere che hanno perduto anche l’abbiccì dell’organizzazione politica.
Il
ricordo degli unici luoghi in cui si sia esercitata una sovranità
popolare limitata, cioè i partiti politici del dopoguerra, è svaporato.
Non c’è stata un’epoca d’oro della sovranità italiana: era un’era di
semi-sovranità sub-dominante. Ma, finiti i partiti tradizionali, è
finita anche quella tangibile mezza sovranità popolare. L’albero della
democrazia non è stato solo sfrondato, è come se da decenni fosse stato
tagliato alla radice. Oggi non c’è uno strumento di promozione della
sovranità del popolo italiano che abbia un minimo di sedimentazione
storica.
Discutiamo
allora con aperture nuove, proviamo l’ebbrezza di percorrere sentieri
mai battuti e riscoprirne altri poco conosciuti. Impariamo molto, in
attesa di trovare una sintesi, una presa a cui tenersi. C’è chi pensa
che se la politica e l’economia sono complesse, si debba semplificarle, e
concentrare drasticamente il discorso su temi che riassumano la crisi, e
su quelli puntare tutta l’attenzione e perfino l’azione politica.
Alcune Cassandre vogliono essere finalmente credute e discriminare i
temi su cui fare la Rivoluzione. Ho visto evolversi impetuosamente in
tale direzione le riflessioni di alcune personalità che frequento da
anni dentro la nostra lega delle maledette Cassandre. È il caso di
alcuni dirigenti e militanti di Alternativa da cui ho imparato molto,
come Marino Badiale, Fabrizio Tringali, Stefano D’Andrea. Cercate le
loro opere in rete: in questi anni hanno pubblicato cose molto originali
e interessanti. Ora, però, Badiale, Tringali e D’Andrea hanno alla fine
reagito alla faccia feroce della TINA proponendo una TINA tutta loro,
ma pur sempre una TINA, basata sulle parole d’ordine “Uscire dall’Euro” e
“Azzerare la UE”. Nel giro di pochi mesi hanno inalveato le loro
intuizioni e analisi complesse in un canale di scorrimento preservato da
argini inaggirabili. Quel che prima era un fiume aperto agli affluenti è
diventato un torrente cementificato: va più dritto e veloce verso la
foce, ma diventa per questo meno adatto quando la pioggia è il Diluvio,
che pure è il tipo di pioggia che anche loro avevano previsto.
La
discussione ha preso una piega difficile via via che Badiale, Tringali e
D’Andrea hanno blindato i termini entro i quali a loro avviso si deve
svolgere la discussione. A loro si è aggiunto anche Claudio Martini,
che ha insistito su una definizione per la loro posizione:
“sovranisti”. Non mi convince, ma è comoda per sintetizzare e la userò
in modo del tutto provvisorio, precisando che la questione della
sovranità popolare è per me altrettanto cruciale.
I
sovranisti sono stati via via più perentori nello stabilire cosa sia
realistico e cosa sia ingenuo, cosa sia irriformabile e cosa sia
velleitario, cosa sia giuridicamente incontrovertibile e cosa sia
debole, con letture della storia nazionale ed europea molto discutibili,
ma presentate come dati di fatto fissati sulla roccia.
Un
fantastico “cul-de-sac” della logica è rappresentato ad esempio dal
concetto, ripetuto a oltranza, che l’Unione Europea è come è, e non come
la vorremmo, ma che non è riformabile perché il meccanismo di revisione
dei trattati ha dimensioni e tempi incompatibili con le magre forze
nazionali di chi vorrebbe cambiarli. Insomma, voler cambiare le
istituzioni europee, essendo per i sovranisti un compito impossibile, è
una fuga nell’irresponsabilità, una sorta di torre d’avorio. “Meglio
recedere per non soggiacere”, semplifica D’Andrea. Lui, come gli altri
sovranisti, intravede da questo passaggio uno sbocco naturale: una piena
sovranità nazionale in cui l’Italia, finalmente libera dalla macina
neoliberista di Bruxelles e Francoforte che grava sul suo collo,
esprimerà una classe dirigente rivoluzionaria che attuerà politiche
dirigiste, protezioniste, con piena sovranità della moneta, con
industrie pubbliche e con politiche dalla parte dei ceti popolari. Un
blocco storico “socialista” come mai si è visto in Italia, e tanti
saluti al capitalismo.
Benissimo.
Siccome
i sovranisti sostengono che i tempi di una «Europa dei popoli»
sarebbero troppo lunghi, e quella stessa aspettativa sarebbe vaga, e che
non ci sarebbe un soggetto collettivo ovvero un «popolo europeo» in
grado di perseguirla, ne dovremmo desumere – per contro – che esista a
loro avviso uno scenario realizzabile in tempi rapidi, basato su una
prospettiva concreta e a portata di mano, sorretta da un popolo italiano
finalmente virtuoso.
Dobbiamo
cioè desumere che in Italia sia possibile instaurare in tempi storici
ravvicinati un meccanismo di consenso e un blocco sociale raccolto
intorno a un tipo di classe dirigente che agisca all’opposto della
piovra conservatrice che c’è.
Per
giunta, questo dovrebbe accadere mentre hanno luogo contraccolpi
monetari, finanziari e militari paragonabili a quelli di una guerra, di
portata tale da rendere ragionevolmente imprevedibile qualsiasi esito.
In
sintesi, per i sovranisti uscire dalla UE si deve, perché riformarla
sarebbe un sogno ingenuo e nessuna nostra influenza sarebbe possibile
sul corso degli eventi. Non sarebbe invece un sogno ingenuo immaginare
di influenzare la storia dello Stato-nazione italico mettendogli subito
delle braghe socialiste e nazionaliste, a dispetto di tutti i soggetti
che tipicamente alzano il tiro nei momenti di crisi sistemica:
avventurieri, mafiosi, camorristi, imprenditori del consenso,
reclutatori di ultras per eserciti simil-Kosovo, danarosi secessionisti,
agenti segreti di ogni dove, speculatori finanziari coperti dalle
istituzioni del Washington Consensus, pirati della Shock Economy, tutti
compresenti e interagenti, e tutti legittimati a non porre più freni a
una forma a questo punto più conclamata, estrema e banditesca della loro
usuale presenza. Sicuri di batterli? Il protezionismo nazionale è
qualcosa a cui guardo senza condizionamenti ideologici, ma non dimentico
nemmeno un minuto che negli ultimi trent’anni la vita politica
repubblicana è stata condizionata dall’impresa più protezionista e
antieuropea che si possa immaginare, la Fininvest.
Giorgio Bongiovanni e Monica Centofante hanno riassunto una mole impressionante di inchieste
della magistratura che hanno rivelato quanto interesse hanno le mafie a
voler creare una sorta di Mafialandia separatista che si fa pienamente
Stato, al riparo da ogni regola italica ed europea, una replica
ingigantita delle dinamiche statuali che già conosciamo di stati come
Messico, Colombia, Kosovo.
Agli
occhi dei sovranisti dunque – almeno nelle loro riflessioni più recenti
– per l’Europa nessuna riforma sarebbe realistica, mentre per l’Italia
in gran tempesta il nocchiero sarebbe invece pronto, benché acciaccato.
Se no, perché uscire dalla UE? Il tutto ora, subito, qui, per diventare
sostanzialmente autarchici.
Facciamo come l’Ungheria? Abbiamo visto subito di che sostanza è fatto quel realismo antieuropeo,
in questo quadro storico e politico, e quali micidiali meccanismi
innesca, in tempi iperveloci che travolgono qualsiasi passaggio
intermedio.
Quel
che contesto nettamente non è la fondatezza di molti elementi di
analisi formulati da Badiale, Tringali e D’Andrea sulle massime
contraddizioni dell’Europa attuale, vale a dire l’attuale assetto
disfunzionale della moneta e i confini costituzionali dell’ordinamento
in capo all’Unione Europea[1].
Quel
che contesto è la loro pretesa di incanalare e forzare la risposta
politica in una direzione che non ammette alternative. Appunto: “TINA”,
There Is No Alternative. E se lo traduciamo, davvero non c’è più
Alternativa.
2. LA TRANSIZIONE
I
sovranisti non si sono posti nella prospettiva della costruzione di un
nuovo gruppo dirigente, anche se pensano di averlo fatto, in perfetta
buona fede. E non perché non abbiano divulgato la loro visione del
problema: hanno infatti scritto pamphlet e articoli, hanno organizzato convegni,
hanno chiamato a raccolta economisti. Ma hanno abissalmente ignorato
altri fattori chiave di questa riflessione, che pure avrebbero potuto
trovare, anche dentro Alternativa (e perfino dentro molte loro
riflessioni iniziali), ad esempio una questione che sin dall’inizio fu
posta al centro delle nostre riflessioni, ossia il problema della transizione.
Si,
proprio la transizione, che avevamo considerato un «cambio di civiltà,
che richiederà immense risorse materiali, ma soprattutto radicali
cambiamenti psicologici, di abitudini, di relazioni tra gl’individui.»
Qualcosa
che non dovrebbe farci spaccare in una discussione sul monetarismo, ma
che ci dovrebbe convocare verso tutte le strade intermedie – le tante
alternative – che possono limitare i danni, in un tempo che si annuncia
disumano.
Anche
laddove proclamassimo parole d’ordine volte a «rompere i rapporti con
l’Unione Europea» (come si dice in casa sovranista), la spada che taglia i nodi gordiani sarebbe comunque in altre mani.
Un recesso dai trattati internazionali, specie di questa importanza,
non si fa con due scartoffie dal notaio. Una rottura traumatica dei
«rapporti con l’Unione Europea» sarebbe la premessa per un accumulo
incontrollabile di fenomeni caotici che zomperebbero allegramente sul
piano cartesiano in cui avessimo voluto ordinarli, facendolo a brandelli
assieme a tutti gli appunti di diritto costituzionale sin lì
scolasticamente compilati. E naturalmente farebbe a pezzi le previsioni
di qualsiasi maledetta Cassandra, con scenari ancora più
imprevedibilmente catastrofici di quelli fin lì evocati.
In
verità, trovo suggestivo il nucleo ispiratore dell’analisi di Badiale e
gli altri, pronti – mi si perdoni l’ironia – con le loro nude mani a
distruggere l’Europa politica, prima che, in un tempo storico
velocissimo, ci travolga tutti.
Tuttavia anche il volto della “Non Europa” a cui alludono non si affaccia affatto dalle loro pagine.
Mi
spiego meglio. Gli scenari più plausibili susseguenti al crollo
disordinato del costrutto europeo sarebbero quelli di un’Europa
disgregata in cui salterebbero in aria anche i precedenti equilibri (gli
Stati-nazione) costruitisi in un contesto storico che non c’è più:
Mazzini è notevolmente morto. Sarebbero scenari in cui svanirebbe
qualsiasi indipendenza reale dell’Italia sia rispetto alle convulsioni
militari dell’Impero atlantico sia rispetto al potenziale egemonico
continentale cinese in fieri. Nel momento in cui è in incubazione una
collisione fra grandi potenze, la dissoluzione europea sarebbe una
catastrofe geopolitica, un fattore accelerante in grado di infiammare
anche tutti gli altri numerosi inneschi che ci stanno portando a una
guerra mondiale.
Certo
che non è uno scenario dimostrabilmente certo e meccanicamente
prevedibile. Ma possiamo ignorarne la gravità e ritenerlo per contro
“improbabile”? Credo che sarebbe una sottovalutazione sconsiderata. In
una situazione in cui, rubo l’espressione a Pier Luigi Fagan,
il «tessuto economico sarà arso come un deserto di sale», non
scommetterei un euro né una lira né un doblone sull’immancabile tenuta
dello Stato-nazione nel contesto di una distruzione dell’Unione Europea.
Non certo a condizioni democratiche, né pacifiche. 
Già
oggi, mentre scrivo, ho ancora lo sguardo sul presidio antidebito
davanti al palazzo della Regione Sardegna, a Cagliari. Ho parlato con
questi imprenditori e artigiani rovinati che bivaccano lì da mesi.
Costituiscono un disperato avamposto di migliaia di persone che non ce
la fanno più a sopportare l’implacabile torchio di Equitalia, che ha
messo in ginocchio il 40% delle imprese sarde, nel pieno di un
incipiente processo di desertificazione economica dell’isola, in un
momento in cui sta chiudendo una grande fabbrica alla settimana. I fondi
europei non sono spesi per le insufficienze della classe dirigente
locale. I fondi derivanti dalle entrate fiscali, che spetterebbero
direttamente alla Sardegna in base a leggi costituzionali italiane,
vengono negati con pretesti dal governo di Roma (non da Bruxelles, e non
da oggi), perfino in presenza del massacro sociale in atto. Se questo
drammatico declino si accelererà, dopo una duratura rottura del patto
costituzionale, cosa aggancerà ancora la Sardegna non dico all’Europa ma
all’Italia? Manzoni, Mazzini? Figuriamoci. Si stanno già rispolverando i
nomi dei patrioti sardi antichi e degli indipendentisti attuali, molti rispettabili e con ragioni buone e quadrate.
Basterà un altro giro di torchio con i tassi usurari
dell’Italia-Equitalia, e qui vedrete esplodere un indipendentismo
radicale. Dovrà intervenire l’esercito tricolore? Oppure interverranno i
sovranisti che si arruoleranno armati di schioppo, come immagina
D’Andrea, per stanare gli altrettanto sovranisti sardisti nel
Supramonte? E in Sicilia, luogo chiave di ogni riunificazione italica,
dai Mille all’operazione Husky, e al contempo luogo di ricorrenti spinte
centrifughe, cosa succederà? I forconi sono solo l’antipasto. E nel
Nord che potrebbe improvvisamente sentire sirene centroeuropee più
forti? Cosa succederà lungo confini percorsi dai profughi delle guerre
interetniche, con le potenze in campo per non rinunciare alle loro
regioni-portaerei? Costa poco, presso i centri del comando, a gente
avvezza al “divide et impera”, spendere miliardi di dollari per esasperare una crisi, penetrare nel nucleo cesaristico di un potere statale,
disgregarlo e coglierne i dividendi. La Libia del sovrano Gheddafi è
stata abbattuta con spietatezza e dovizia di mezzi. La dinastia Assad in
Siria è nello stesso mirino. Ovunque si possono trovare buone ragioni
amiche da dollarizzare e imbottire di armi, buone ragioni nemiche da
demonizzare, o cattive ragioni da considerare irredimibili, o normali
contrasti da rendere incomponibili, o compromessi da rigettare fino a
rendere normale una guerra civile sotto una No-Fly Zone. Nemmeno
l’Italia sarebbe immune. Nemmeno questo suolo sarebbe sacro. I droni che
oggi sorvolano e avvelenano  solo i poligoni militari sardi nei giochi
di guerra, potranno l’indomani trasvolare e avvelenare tutti i cieli e i
territori di una Repubblica allo sfacelo.
Non
ci salverà un’idea d’Italia astratta e cristallizzata, che non c’è mai
stata in quella forma evocata dai sovranisti, per le ragioni ben
spiegate da Fagan e da Piero Pagliani, oltre che dal Gruppo Clarissa.
Quando
poi i sovranisti ritengono che il tentativo di riformare e
salvaguardare un’Europa politica non sia altro che la volontà di creare
un competitore imperialista, un Moloch eurocentrico da aggiungere alla
lotta fra le superpotenze, hanno capito l’esatto opposto di quanto
andiamo dicendo. Faccio interamente mie le parole del Gruppo Clarissa:
«O
i movimenti di alternativa riusciranno a pensare e ad agire
parallelamente in modo italiano ed europeo, in modo che le soluzioni
proposte e sviluppate in Italia siano in grado di alimentare anche il
processo di cambiamento in Europa, oppure sia l’Europa che il nostro
Paese diventeranno nuovamente terreno di scontro di forze etero-dirette,
con il rischio di una frammentazione anche politica, secondo linee di
faglia che qualcuno sta già chiaramente delineando, in Italia ed in
Europa, e che attori interessati operano da tempo spregiudicatamente per
favorire: basti pensare da una parte alle “tre Italie” ipotizzate per
il nostro Paese, e, dall’altro, alla possibile divisione europea in “tre
Europe” (centro-occidentale, mediterranea ed orientale) cui molti
attori esterni si stanno applicando con energia.
Per
restare unita, l’Italia deve lottare perché anche l’Europa resti unita.
Per essere sovrana, l’Italia deve lottare perché anche l’Europa sia
sovrana.»
La
fine della prospettiva politica europea eliminerebbe qualsiasi
interlocuzione dotata di qualche peso rispetto all’attuale posta in
gioco. Non ci sarebbe nulla in grado di impedire una fase più feroce del
confronto con la Cina, ora che viene recitato il rosario della
devastazione in Africa e Medio Oriente per voler piegare Pechino e
renderla infine satellite dell’Impero.
Anche
questo non è ineluttabile come una reazione chimica, d’accordo, ma è
uno scenario molto plausibile, che fa già parte dei piani di influenti
dottor Stranamore, gli unici a cui i bilanci non negano mai nulla, e che
risulterebbe estremamente pericoloso ignorare.
In
questo campo come in altri servirà un pensiero politico della
transizione, in cui un molta Europa ci servirà ancora, eccome, perché lo
spettro che si aggira per il continente, oggi, è un localismo molto
distruttivo, egoista, violento, etnicista e regressivo, infinitamente
manovrabile dai padroni del mondo.
Mentre
esiste – penso al movimento No Tav e non solo – anche un senso di
difesa del territorio, anch’esso locale, diffuso, che ha tuttavia
macrointeressi su scala europea (scambi economici, culturali, energia,
ricerca scientifica e tecnologica, necessità commerciali comuni e nel
contempo differenziazioni di obiettivi rispetto ad altri blocchi
continentali). Lo hanno ricordato perfino gli stessi Badiale e Tringali
agli esordi della loro battaglia critica contro il dispositivo
dell’euro.



3. LA CIVILIZZAZIONE EUROPEA E L’ITALIA
I sovranisti oggi calcano la mano sull’Europa che non sussisterebbe contrapponendole un’Italia che esisterebbe.
Quando Badiale e Tringali affermano
che una qualche forma di patriottismo europeo presupponga un popolo che
abbia caratteristiche di unità (la lingua, le tradizioni, etc…), e
una storia (con le sue battaglie, i suoi “eventi”, etc..), con
l’esplicitazione che questo popolo su scala europea non esista, si
riferiscono in realtà a un modello di statualità troppo ricalcato sullo
Stato-nazione. Non ho nessun problema ad ammettere che lo Stato-nazione
ha una sua dimensione critica “media” inadatta a un costrutto più
complesso come lo stratificato mosaico europeo (anche se non dimentico
l’esempio dell’India, una mescolanza ancora più variegata dell’Europa –
essendo la seconda entità geografica al mondo per grado di diversità
culturale, linguistica e genetica dopo l’Africa – eppure ricomposta in
un’unica entità istituzionale che riconosce decine di lingue ufficiali).
Ma
proprio perché occorre valutare caso per caso, si andrebbe fuori strada
a voler ricondurre le istituzioni europee storicamente determinate al
calco westfaliano dello Stato-nazione, che è un fenomeno altrettanto
storicamente determinato e non un dogma.
Va
detto peraltro che il nostro Stato-nazione di fatto non fu forgiato
dagli intellettuali del Risorgimento, ma da un processo violento di
annessione che assoggettò le realtà statuali esistenti al Regno di
Sardegna dominato dalla dinastia sabauda, in forma di una rivoluzione
passiva favorita dall’Inghilterra. Per reprimere la guerriglia sorta nel
Sud del nuovo stato furono usati più soldati che in tutte le cosiddette
guerre d’indipendenza messe insieme[2], furono
sistematicamente distrutti i corpi sociali intermedi, l’industria,
l’agricoltura, le foreste, le infrastrutture, i canali di riproduzione
della memoria di vasti territori
. Enormi masse meridionali fluirono in un esodo biblico verso le Americhe mentre si instaurava un divario territoriale plurisecolare senza pari
in Europa. Alla fine, dopo successive vicende secolari, la condivisione
di uno spazio nazionale e di un tratto di storia comune, ancorché
segnata da tutte le forzature artificiali del processo storico, si è
comunque sedimentata in una riconoscibile collettività italiana, fatta
di legami molto materiali che possono essere sciolti solo con
un’artificiosità uguale e contraria. O con una catastrofe geopolitica.
Possiamo
dire che una tendenza analoga è andata avanti nel processo di
unificazione politica dello spazio europeo, passo dopo passo. Il
risultato della strategia dei piccoli passi sarebbe stato che «un
giorno i governi nazionali si sarebbero svegliati scoprendo di essere
integrati in una “rete diffusa di attività e istituzioni internazionali”
da cui sarebbe stato quasi impossibile districarsi»
[3].
Sarà satanico, come ripete D’Andrea, ma è la realtà effettuale. Non
tenerne conto lo preserverà da Satana, ma non dalla presa del potere di
un clone di Hashim Thaçi, il premier del Kosovo, detto il Serpente.
Ci
sono interdipendenze europee che si possono sbrogliare solo al prezzo
di una calamità, perché nel frattempo l’idea europea è diventata un
fatto compiuto, vissuto da milioni di esseri umani, qualunque fosse il
disegno iniziale e quello successivo dei potenti.
Richiamo alcuni esempi storici che spiegano perché i processi istituzionali creano realtà che non si prestano ad essere azzerate senza azzerare anche il passo degli esseri umani.
Primo esempio. Quando la Federazione Jugoslava
fu spaccata, negli anni novanta, il recupero del vecchio filo spezzato
degli Stati-nazione fu in realtà un tragico processo di reinvenzione
delle tradizioni, che non si dava cura delle infrastrutture comuni, dei
tantissimi matrimoni interetnici, della non più scomponibile mobilità
che aveva reso la Jugoslavia una realtà concreta cui si legava la vita
materiale e spirituale di milioni di cittadini. Il costo umano fu
spaventoso.
Secondo esempio. La sovranità della Lettonia
fu schiantata nel 1940 dall’Armata Rossa, che trasformò questo e altri
paesi baltici in repubbliche sovietiche. Quando nel 1991 la Lettonia si
staccò nuovamente da Mosca, ormai solo il 60% della popolazione era
etnicamente lettone. Il resto, soprattutto russi, erano frutto della
ricomposizione sovietica. Moltissimi erano nati nel territorio di quella
repubblica, ma il nuovo regime li privò in gran parte dei diritti di
cittadinanza, e la situazione permane, con moltitudini di autoctoni
considerati stranieri in patria. Il governo di Riga agisce come se
l’interdipendenza nel frattempo creatasi non fosse mai esistita e non
sussistesse nemmeno ora. Da questa rimozione reazionaria si sono
generate ingiustizie intollerabili e perfino automutilazioni economiche,
laddove l’integrazione sarebbe ancora assai conveniente in tanti campi[4].
Rispetto
alla Jugoslavia e all’Unione Sovietica, l’Europa di oggi è un caso
diverso ancora, ma è comunque il frutto dell’interazione storica di
spinte imperiali, disegni economici e istituzionali, vita vissuta di
milioni di individui, in un contesto storico in movimento. Così come lo
Stato italiano, l’Unione Europea ha teso ad autolegittimarsi senza
bussare in casa Badiale o in casa Cabras a chiedere permesso.
La
questione giuridica sollevata dai sovranisti ha molti elementi che
faccio miei senza problemi. Individua la divaricazione fra i due diversi
punti di fuga della prospettiva costituzionale propria della
Costituzione italiana e di quella derivante dai trattati europei. Nel
momento in cui l’Unione Europea accelera la sua spinta costituente, la
divaricazione arriva al dunque.
«Non
si scappa dalla logica» – proclama D’Andrea. E mentre ci indica con
sicurezza il pericolo, ostenta altrettanta sicurezza per indicarci la
soluzione sovranista, che passerebbe per le macerie di tutta
l’infrastruttura dell’Unione Europea. E allora, se dalla logica non si
scappa, il diritto acquisito comunitario, il famoso “acquis”, non
sarebbe più affatto acquisito. I sovranisti azzerano, non fanno
transizione. O almeno, non hanno più scritto un rigo su questo. Sono
sicuro che saranno in grado di scriverlo, e anche bene, ma la
transizione non è più in cima alle loro preoccupazioni, e a noi
rimangono in mano delle pagine strappate. Questo silenzio lascia un
indecifrabile intervallo tra l’ipotetico crollo di sessant’anni d’Europa
e il neorisorgimento italico invocato dall’ala nazionalista-ottimista
delle maledette Cassandre. Cosa riempirà questo intervallo? Ora, non è
che io mi ripari sotto l’ala catastrofista delle medesime.
È
che sto vedendo passare lungo il fiume troppi corpi politicamente
morti: quello di Papandreu che osava proporre un referendum per la
Grecia; o quello di Orbán che da Budapest voleva spezzare le reni a
Bruxelles, prima di mandarvi, dopo appena una settimana, il suo ministro
degli esteri con il cappello in mano, reduce da una vana e umiliante
anticamera presso la sede washingtoniana dell’FMI.
Prima di illuderci di essere in una fase di attacco, suggeriscono Romano Calvo ed Ettore Macchieraldo, guardiamo allo scenario: «Uno scenario, si badi bene, che non saranno poche migliaia di volenterosi come noi a determinare.»
E
soprattutto, non dovremmo, in reazione all’orribile Europa di Draghi e
Monti, sopravvalutare gli Stati-nazione oltre il loro significato
storicamente dato.
In queste analisi ci soccorre lo storico Franco Cardini.
Lo ha citato anche Claudio Martini, ma, come da un cesto di frutta, ha
voluto cogliere solo le ciliegie di Cardini che si incastonavano nel suo
discorso sovranista-nazionalista.
Cardini
in realtà ricerca da sempre le radici di un patrimonio comune reale
dell’Europa, che non a caso ebbe un equilibrio multietnico e
plurilinguistico nella fase imperiale asburgica. Cardini descrive molto
bene questi aspetti trascurati ma vivi della storia europea nel libro
che ha scritto con Sergio Valzania, “Le radici perdute dell’Europa. Da Carlo V ai conflitti mondiali
(Mondadori, 2007). Lo storico fiorentino trova esperienze che in
determinate circostanze storiche hanno costituito ambiti culturali e
politici condivisi. Oggi irripetibili – e anche indesiderabili in quelle
forme – ma abbastanza significativi da dimostrare che non esiste solo
un modello di “nation building process”, né solo il Moloch degli eurocrati.
Cosa
dice infatti Cardini? Dice che c’è un «gigantesco anacronismo» che
domina «la comune presentazione dei fatti accaduti nei secoli XVI e XVII
in Europa, cioè la pretesa di analizzarli e interpretarli alla ricerca e
nell’ottica delle origini nascoste degli stati nazionali. Siamo di
nuovo alla diffusa abitudine dell’utilizzazione di categorie del “dopo”
per spiegare il “prima”, corollario della vecchia massima deterministica
del post hoc, ergo propter hoc.
Un vizio tipico della storiografia positivista», ma ancora largamente
abusato, marcato dalla pretesa di ridurre a consequenzialità prevedibili
come una reazione chimica una materia che invece non si presta.
La
materia che ci troviamo a maneggiare è la delicata sostanza di
qualsiasi procedimento di definizione di un’identità di un popolo e di
qualunque processo di costruzione giuridica di vasta portata. Oggi è
abbastanza comune sintetizzare questo discorso nel prezioso schema
elaborato dall’antropologo Carlo Tullio Altan. In
questo schema l’identità di un popolo ha varie componenti simboliche.
Innanzitutto la memoria storica, le istituzioni e i costumi, la lingua,
la discendenza come sistema di parentele e gerarchie, e infine il
territorio. Potremmo anche dire epos, ethos, logos, genos e oikos.
Se
usiamo disinvoltamente questo modello analitico, possiamo cercare di
identificare per l’Europa soprattutto la parte che sarà recitata dall’ethos,
cioè dalla componente simbolica, all’interno di un’altra serie di
elementi di cui la storia diventa sostanza: l’ecosistema nel quale un
evento si manifesta; l’attività economica; le forze sociali e la cultura
come insieme di saperi e credenze. Per analizzare l’idea d’Europa
dovremo avere una visione non deterministica dei fenomeni sociali, e perciò comprendere quanto possa essere variegato l’approdo alla statualità da parte delle popolazioni europee.
Se facciamo riferimento a una visione così aperta degli elementi costitutivi di una comunità democratica che abbia un nuovo motore della propria sovranità,
alla vecchia definizione di “carattere nazionale”, troppo incline a
facili psicologismi e pericolosamente affine a definizioni razziste,
occorrere semmai sostituire quella di “civilizzazione culturale”.
E
allora diventa superfluo dire che “non esiste un popolo europeo”,
quando invece si può studiare e riconoscere – in tutte le sue
contraddizioni – una evidente civilizzazione culturale europea,
che si innesta su una italiana, una francese, una tedesca, e così via,
con un portato di convergenze politiche e di affinità giuridiche
estremamente rilevanti.
È
all’interno di un ambito così complesso che i processi di
socializzazione portano a “uniformare” inconsapevolmente certi
comportamenti degli individui.
Allora converrà andare a scavare nell’oggi dentro l’identità di questa comunità di popoli, con troppa leggerezza considerata inesistente. Mi pare che Cardini offra un ambito di riflessione molto utile.
Il concetto di Europa dei popoli e di Europa delle patrie diventa
riconoscibile, una volta che non gli vogliamo cucire addosso il panno
dello Stato-nazione.
Quando
richiamo un’identità europea condivisa non dimentico neanche per un
istante che in questo momento in Grecia non esiste più la classe media e
che ci sono sempre più bambini che saltano i pasti, come non dimentico
che il volto dell’impoverimento greco coincide con il volto di questa
Europa spietata, penzolante fra il deleverage angloamericano e il mercatismo
germanico, ossia fra padella e BCE. Nessuno di noi, nella lega delle
maledette Cassandre, tralascia di sottolineare chi siano gli artefici
della sventura. E nessuno si illude che l’austerità degli spietati
salva-banche possa un giorno magicamente risollevare le nostre vite.
Possiamo parafrasare quel che diceva Karl Kraus della psicanalisi, e
dire che la TINA è la malattia di cui crede di essere la cura. Qual è
allora la soluzione?
Da
parte dei sovranisti si rimarca il conflitto insanabile fra il
“programma” della Costituzione italiana e il “programma” della più
recente evoluzione costituzionale comunitaria, che troverà diretta
applicazione nell’ordinamento a partire dal cruciale campo dei bilanci,
da cui dipende il resto della macchina statale.
Prima
di dichiarare questa robusta tendenza dell’Europa come politicamente e
tecnicamente irriformabile, ci penserei due volte. E anche tre e
quattro.
L’antica dialettica greca aveva nozione della situazione logica dell’aporia,
la strada che si mostra senza uscita in quanto interrotta da due punti
d’arrivo fra loro inconciliabili e tuttavia similmente compatti. L’unica
maniera di uscire dal doppio cul-de-sac è quello di
ripresentarsi alle premesse iniziali per scoprire lì l’incoerenza di cui
abbiamo pagato il prezzo alla fine del percorso logico. Occorre in
questo caso scoprire se la contraddizione ha il punto d’appoggio per
essere oltrepassata.
A
mio modesto parere la storia dell’Europa, anche quella più irrigidita
degli ultimi due decenni, va contro l’idea della fissità delle regole,
mentre conta moltissimo la capacità di far valere un peso politico delle
vestigia di sovranità rimaste, purché si abbia un disegno politico all’altezza.
Qui sì che possono tornare in campo le tanto evocate sovranità. Così
come finora il diritto comunitario è stato caratterizzato da
innumerevoli eccezioni e inapplicazioni imposte dagli Stati in base al
loro potere negoziale reale, allo stesso modo potrà accadere ancora che
l’Italia – preferibilmente assieme ad altri paesi – prescriva le aree invalicabili dei suoi interessi sovrani e popolari. Come vedremo, ha armi
decisive, sebbene abbia una classe dirigente pessima e in prevalenza
asservita a poteri lontani e stranieri, o a poteri vicini e avidi. Tutti
poteri, lontani e vicini, criminali.



4. Nuovo processo costituente europeo (con alcuni missili)
 In
un dibattito politico non dobbiamo trasformare analisi ragionevoli in
dogmi che non lasciano alternative. La politica è soggetta a evoluzioni
che scartano di lato rispetto ai paradigmi rigidi. Trovare una parola
d’ordine e un obiettivo politico sostenibile diventa una tentazione
rivoluzionaria molto attraente, specie se la crisi galoppa, ma può
portare a gravi errori prospettici. Piero Pagliani ironizza in
proposito: «che senso ha una politica arroccata su una parola d’ordine
che si riferisce a una situazione del passato? Sarebbe come lanciare un
business sul trasloco da un quartiere all’altro di una città proprio
mentre questa sta subendo un terremoto, basandosi sul ricordo di quando
la città era normale.»
Durante
queste scosse si possono scoprire parole d’ordine molto più variegate,
articolate, più aderenti a uno scenario complesso e in evoluzione, più
orientate cioè a costruire un programma politico. E
magari più attente a costruire convergenze di interessi anche con
avversari politici che ci tengono a non determinare la «rovina comune
delle classi in lotta». È sempre avvenuto, e sarebbe un segno di
immaturità politica pretendere che non debba accadere ancora.
In
questa fase storica, ad esempio, sarebbe un errore non cogliere le
contraddizioni in seno alle classi dirigenti europee. Giulietto Chiesa
lo ha spiegato benissimo nel suo articolo di fine 2011
sulla questione europea: «uno dei precetti di realismo ai quali
dovremmo attenerci è di fare un’analisi reale delle forze reali, in ogni
frangente. Ignorare che esistono potenziali alleati temporanei,
anche se velenosi, e procedere come se vivessimo nel vuoto pneumatico
non è una linea politica. È un’avventatezza.» A un crollo catastrofico
dell’Europa, che significherebbe guerra e rovina, preferisco la
costruzione di una nuova fase costituente, sapendo che le costituzioni
nascono da compromessi, sempre. E il luogo in cui i compromessi potranno
essere negoziati è uno spazio pubblico europeo, in cui – finché ci sono
margini di manovra – sarà bene non regalare nulla a chi intende
spoliarlo, sapendo che esistono, perfino tra le forze dominanti, realtà
politiche in grado, in determinate circostanze, di riprendere il
progetto di un’Europa autonoma dall’atlantismo.
La
transizione abita in mezzo a queste possibilità, e può farsi progetto
politico, anziché riporre speranze catartiche in un azzeramento
dell’Europa istituzionale e politica. Naturalmente sarà un progetto
politico difficilissimo, perché la crisi è sistemica e imprevedibile.
Che l’Euro sia una moneta «che non dovrebbe esistere», d’altronde, lo ha scritto perfino il servizio studi del colosso bancario svizzero UBS.
Nessuno pensa che questo assetto monetario possa durare. Ma andare
incontro disarmati alla sua disintegrazione sarebbe un programma
politico irragionevole. Dopo la rimozione del Muro di Berlino i paesi
europei impiegarono pochissimo tempo per cambiare le istituzioni
europee. La spinta della necessità potrà cambiare rapidamente anche lo
scenario di oggi.
Quali armi abbiamo? L’economista Bruno Amoroso suggerisce quattro missili ben mirati
«che frantumino l’iceberg della finanza e del gruppo di potere che ha
pilotato l’Europa dalla zona dell’Ue alla zona della Grande Germania.»
Se leggete bene la sua proposta, è un embrione di programma politico aperto a ulteriori sviluppi:
«Il primo missile, che potrebbe partire dall’Italia, è quello di nazionalizzare le grandi banche
nazionali togliendogli ogni ruolo nel campo del credito e del controllo
finanziario, mettendole in liquidazione mediante il trasferimento delle
loro funzioni al sistema del credito cooperativo e popolare nelle sue
varie forme assunte dal credito locale.
Questa è la vera liberalizzazione da fare smettendola con il fumo dei fuochi d’artificio dei taxisti e delle farmacie.
Il secondo missile va diretto alla Banca d’Italia e Banca centrale europea, uffici regionali della Goldman Sachs, restituendo il controllo e la sovranità monetaria ai governi dei paesi e ai rispettivi “Ministeri del tesoro pubblico”.
Il terzo missile – lasciamolo ai francesi che di omicidi mirati se ne intendono come hanno dimostrato da ultimo in Libia – deve colpire le società di rating,
accecando così il sistema di rilevazione e di pilotaggio della
speculazione, e i paradisi fiscali che sono i centri di benessere della
speculazione. Queste società vanno bandite dall’Europa (la guardia di
finanza e l’antimafia potrebbero prendersi carico del compito unificando
così la lotta all’evasione con quella alla mafia), e le Borse che ne
seguono gli indirizzi vanno immediatamente “sospese” come si fa
normalmente quando interviene una turbativa d’asta a scopo speculativo.
Il quarto missile
non deve contenere una bomba, ma un annuncio ai cittadini europei che
il debito sovrano va riportato dentro i confini dei vari paesi con l‘annullamento di tutti gli impegni su titoli
ceduti a tassi che superano il corretto interesse bancario (2,5-3 %
max), e collocandoli tra i propri cittadini con un prestito nazionale
solidale così come fu fatto in Italia con il «prestito per la
ricostruzione» del dopoguerra. Cessioni di titoli al prestito
internazionale devono essere contrattati a livello dei governi dei vari
paesi, dentro norme e costi concordati in modo trasparente e con la
garanzia solidale dell’Ue».
Non
è l’unica proposta di questo tipo. Anzi c’è un esplodere di proposte
alternative che potrebbero fare impazzire la grande finanza imperiale e i
suoi maggiordomi, a partire da Mario Monti. Tutte queste proposte
disegnano uno tempo per la transizione e uno spazio per ripensare i patti sociali e il ruolo delle sovranità. Non va data per scontata la prevalenza della TINA. Ci sono alternative. Che possono presentarsi se tiriamo il fiato.
Lucio
Caracciolo ammonisce che «bisogna convincere i nordici delle nostre
ragioni. Sapendo che non tutti in Germania la pensano come Merkel, che
la Francia non condivide affatto la cultura economica e monetaria
tedesca, e che forse non tutti i nordici muoiono dalla voglia di ridursi
a ruote di scorta della SuperEuropa»[5].
La politica deve semplicemente fare quello che ha fatto nel corso dei
secoli: prevalere sull’economia. Al disastro inevitabile del monetarismo
attuale si sostituirebbe lo spazio di manovra per soggetti in conflitto
ma interessati a evitare la comune rovina.
I
cinque Piigs, ad esempio, anziché farsi prima macellare per poi
decidere di ricucirsi tardivamente da morti, potrebbero da subito
formare l’allegro club dei superdebitori.
Un debitore è un soggetto che ha un problema, ma se è un superdebitore il problema più grande ce l’ha il creditore.
Pertanto, saremmo in presenza della lobby più potente mai vista in Europa, che pure ne ha viste tante.
Tutti
capirebbero che un crollo disordinato avrebbe effetti sistemici ben più
gravi della somma di singole insolvenze nazionali. L’allegro club
potrebbe inoltre invocare buonissime ragioni giuridicamente
inoppugnabili, fin qui trascurate. Stefano D’Andrea nell’Europa
giuridica ha visto solo la tetragonia neoliberista, cioè la declinazione
derivante dall’attuale “pensiero unico”. I trattati europei però
parlano di solidarietà fra gli Stati membri. Se ci
metti la politica cambia tutto, e quella che sembrava lettera morta si
fa carne viva. Sarebbe l’occasione per far valere questa solidarietà
innanzitutto fra gli Stati che condividono necessità comuni. Anziché
giocare al piccolo chimico nazionalista che si brucia il culo, come
Orbán, i Piigs potrebbero farsi molti amici – oltre a potenti nemici,
certo – nel dire alle agenzie di rating: «voi non siete “i mercati”. Voi
siete solo quelli che tengono il sacco agli oligopoli che estraggono il
valore ovunque e a qualunque costo. Da oggi torna la legge». Ad esempio
una legge anti-avvoltoi che istituisca un nuovo quadro giuridico europeo per i beni comuni, trovando una sicura base di consenso continentale. Ne parlano Alessandro Politi e Claudia Bettiol, che propongono di creare «un’Agenzia europea dei beni comuni» di natura pubblica che garantisca la gestione degli asset con un’azionariato popolare e regole ferree contro i raider finanziari[6],
al fine di garantire politicamente la tenuta dei sistemi di welfare
europei e consolidare poteri in grado di sottrarsi alla predazione del
finanzcapitalismo. Non basta? Non basta. C’è tutto un insieme di
politiche europee che potrebbe funzionare solo ricollocando la geopolitica e riconoscendo una difformità d’interessi rispetto alle strategie atlantiche. Quando qualche anno fa Jeremy Rifkin scrisse Il sogno europeo
fu indubbiamente troppo ottimista sulle sorti dell’Europa politica, ma
si impegnò a scrivere interi capitoli soltanto per spiegare,
innanzitutto agli americani, perché l’Europa aveva senso in quanto si
differenziava dal modello del Sogno americano: «Il Sogno europeo, con
l’accento che pone sull’inclusività, la diversità (…) i diritti umani
universali, i diritti della natura e la pace, è sempre più affascinante
per una generazione ansiosa di essere connessa globalmente e, nello
stesso tempo, radicata localmente». Queste parole stridono con l’incubo
di Atene e con le concrete paure dell’Italia di oggi, ma si presenta
ancora come un terreno più fertile di qualsiasi TINA. Se William
Shakespeare scrivesse oggi forse direbbe: «Ci sono più cose in cielo e
in terra, Orazio, di quante ne sogni il tuo pensiero unico».
L’analisi
proveniente dai “sovranisti” potrà ritornare feconda quando deciderà di
allargare lo sguardo, a sollevarlo, e riuscirà a scandalizzarsi di meno
delle contraddizioni della politica, che non ha la linearità di
autoregolazione, i controlli automatici e adattativi di un termostato.
Occorrono gruppi dirigenti in grado di attraversare uniti un periodo
difficile ed estremo, e che puntino a costruire strumenti di
partecipazione politica popolare, gli unici che possano garantire una
ripresa di sovranità autentica. Le Cassandre devono avere un progetto
politico paziente. Non ci sono scorciatoie. Ci sono Alternative.



NOTE
[1]
Lo riaffermo: i “sovranisti” hanno compartecipato al merito di
identificare anche loro temi, pericoli e programmi molto in anticipo sui
tempi della crisi. Ovvero: abbiamo previsto insieme il Diluvio. Sono
anche loro delle maledette Cassandre, a lungo a loro agio in un club di
maledette Cassandre, del quale mi onoro di far parte.
[2] Massimo Bontempelli, Ettore Bruni, Storia e coscienza storica, vol. 3°, Trevisini, 1986.
[3] Stephen George, Politics and Policy in the European Community, Oxford, Clarendon, 1985, p. 20.
[4] Vedi Giulietto Chiesa, Il candidato lettone. Inedite avventure di un alieno in Europa, Ponte alle Grazie, 2010.
[5] Lucio Caracciolo, “Italia Kaputt Mundi”, in Alla guerra dell’Euro, «Limes» n. 6, 2011.
[6] Alessandro Politi e Claudia Bettiol, “Il gioco di Scrat e Sid”, in Alla guerra dell’Euro, «Limes» n. 6, 2011.

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