Il nuovo patto transatlantico (TTIP) e il potere dell’economia

di Gaetano Colonna.

Nonostante siano sotto gli
occhi di tutti i risultati del liberismo assoluto che ha dominato
l’economia globale nel corso degli ultimi decenni, Stati Uniti ed Unione
Europea stanno mettendo a punto il nuovo strumento giuridico che
consentirà alle grandi compagnie multinazionali di influire sulle scelte
sociali e politiche dei singoli Stati europei, allo scopo di affrontare
da posizioni rafforzate la competizione globale per l’egemonia
sull’economia-mondo del XXI secolo.
Lo scorso luglio infatti, a Washington, si sono ufficialmente aperte le trattative sulla Transatlantic Trade and Investiment Partnership
(TTIP), un’ipotesi di accordo economico globale tra Usa e UE che
potrebbe stabilire i principi della riorganizzazione economica
dell’Occidente nel pieno di una crisi che sempre più dimostra di essere
strutturale e non congiunturale. Unione Europea e Stati Uniti, infatti,
rappresentano insieme quasi metà del Prodotto Interno Lordo del pianeta
ed un terzo del commercio mondiale: ogni giorno tra le due sponde
dell’Atlantico vengono scambiati beni e servizi per 2 miliardi di euro,
mentre gli investimenti reciproci toccano quasi i 3.000 miliardi di
euro. Si tratta quindi non solo dell’area che ha dato storicamente vita
al capitalismo occidentale, ma soprattutto della principale
concentrazione economico-finanziaria del capitalismo internazionale
odierno.
Il progetto TTIP si è sviluppato nel corso della grande
crisi epocale che attraversiamo, a partire dal 2007, ma ha conosciuto
un’accelerazione negli ultimi mesi, pur restando sotto traccia
nell’attenzione mediatica anche a motivo di una particolare riservatezza
sui protagonisti effettivi della sua elaborazione, al punto che
l’Unione Europea si è rifiutata fino ad ora di fornire i nomi dei
componenti della commissione tecnica mista, costituita nel novembre 2011
per predisporre l’agenda dei lavori e le analisi preliminari (High-Level Working Group on Jobs and Growth),
a parte quelli dei due responsabili, lo statunitense Ron Kirk ed il
commissario per il commercio della Ue, il belga Karel De Gucht: a nulla
sono servite, ad esempio, le richieste di conoscere i nomi degli altri
autorevoli membri del gruppo di lavoro da parte di Pascoe Sabido,
dell’organizzazione Ask the EU, nonostante la sua organizzazione si sia appellata alle norme comunitarie sul diritto all’informazione.

A chi interessa il TTIP?

Non
è tuttavia difficile individuare i promotori di questa iniziativa, al
di là dei singoli nomi dei protagonisti: sono le grandi multinazionali
che dominano il panorama mondiale dell’economia, riuniti in gruppi di
pressione su entrambe le sponde dell’Atlantico che da decenni esercitano
una fortissima influenza, mediante tutti gli strumenti del lobbying
moderno, sugli organismi regolatori del mercato europeo, siano essi
l’Unione Europea o i singoli Stati nazionali. Se per esempio
consideriamo il principale dei gruppi statunitensi che operano per
indirizzare le trattative del TTIP, la Business Coalition for Transatlantic Trade
(BCTT), troviamo che nel consiglio direttivo dell’associazione sono
direttamente presenti aziende come Amway, Chrysler, Citi, Dow Chemical,
FedEx, Ford, General Electrics, IBM, Intel, Johnson & Johnson, JP
Morgan Chase, Lilly, MetLife e UPS, mentre tra le associazioni che
aderiscono alla coalizione troviamo Business Roundtable, Coalition of
Service Industries, Emergency Committee for American Trade, National
Association of Manufacturers, National Foreign Trade Council,
Trans-Atlantic Business Council, U.S. Chamber of Commerce, U.S. Council
for International Business. Ben si vede che il gotha delle grandi
imprese americane internazionalizzate è direttamente impegnato per
orientare secondo i propri desiderata i rappresentanti dei governi.
Nonostante
questo, solamente le preoccupazioni francesi sugli effetti che il TTIP
potrebbe avere sui sussidi alla propria industria audiovisiva hanno
fatto notizia per qualche giorno, senza che ovviamente il cittadino
europeo potesse mettere bene a fuoco i termini della questione.
Eppure
questo accordo potrebbe avere effetti importanti su tutti gli aspetti
della vita sociale europea nei prossimi decenni, dato che esso investe
tutti i settori economici (prodotti, beni e servizi) per assoggettarli
al principio fondamentale dell’abolizione di ogni barriera
regolamentativa, tariffaria e non, omogeneizzando le normative e gli
standard applicativi, eliminando quanto più possibile strumenti a
garanzia del consumatore come possono essere, ad esempio, controlli,
etichettature e certificazioni, ritenuti tutti “barriere indirette” al
libero scambio. Il tutto in una gamma di business che va dalla
chimica-farmaceutica alla sanità, dalle auto all’istruzione,
dall’agricoltura ai cosiddetti commons (i beni comuni come l’acqua), agli strumenti bancari e finanziari.
L’esempio
più semplice è quello degli organismi geneticamente modificati, la cui
introduzione massiva nell’agricoltura europea è stata fino ad oggi
rallentata da una serie di regole definite dall’Unione Europea, in
conseguenza del massiccio rifiuto dell’opinione pubblica continentale
nei confronti di queste tecnologie. Regole e controlli che si sono
ispirati al cosiddetto “principio di precauzione”, secondo cui in
presenza di potenziali rischi per la salute e per l’ambiente, sono
necessarie speciali cautele nell’introduzione e commercializzazione di
tecnologie e di prodotti.
Le grandi multinazionali
dell’agro-industria mondiale stanno combattendo da un decennio contro
queste regole che a loro dire costituiscono appunto una barriera
commerciale indiretta nei confronti di prodotti che, sempre a loro
avviso, sarebbero “sostanzialmente equivalenti” alle sementi non
ingegnerizzate. Nel caso in cui il TTIP diventasse operativo, a partire
dal 2015, molte di queste regolamentazioni che rendono più difficile la
diffusione degli Ogm in agricoltura diverrebbero illegittime e quindi i
grandi gruppi della chimica e della genetica agricola (spesso aziende
dominanti anche nel settore della salute) non avrebbero più ostacoli
nella commercializzazione di massa dei loro prodotti in una delle tre
più grandi agricolture mondiali, quella europea appunto.

Le multinazionali condizionano la legge degli Stati

In
questo modo, quindi, le grandi imprese economiche compiono un passo
decisivo nella storia del loro rapporto con il potere regolatorio degli
Stati: acquisiscono cioè la capacità di intervenire direttamente sul
piano legale contro leggi e regolamenti che esse ritengono non conformi
ai propri interessi di profitto.
Il TTIP infatti renderebbe
immediatamente possibile citare in giudizio l’Unione Europea e gli Stati
nazionali senza dover affrontare la giurisdizione tradizionale
pubblica, come già sta accadendo ad esempio nel NAFTA (North-American Free Trade Agreement),
eliminando quindi alla radice una delle tradizionali prerogative degli
Stati-nazione moderni, vale a dire quello di esercitare il potere
giudiziario sul proprio territorio. Non a caso il fenomeno delle investor-state arbitration,
che scavalca le giurisdizioni nazionali, si è già sviluppato a livello
globale tanto che, alla fine del 2012, erano aperti 514 contenziosi di
questo tipo, con una crescita del 250% rispetto all’anno 2000: 58 di
essi sono stati aperti solo nell’ultimo anno, dimostrando che il ricorso
a questo strumento giuridico non-statale è di crescente importanza per
le grandi multinazionali; ben 329 (vale a dire il 64%), interessano gli
Usa o la Ue, mettendo in luce una delle più sottili ma fondamentali
motivazioni del TTIP, quella appunto di fornire alle imprese
multinazionali uno strumento per eliminare quanto più possibile
l’intervento normativo dei poteri pubblici rispetto agli interessi di
profitto economici.
Non basta: per quanto infatti si possa e si debba
oggi essere critici nei confronti dell’Unione Europea, è un fatto che
“il Trattato [di Lisbona del 2009] ha creato l’opportunità per la UE di
fare tesoro dell’esperienza degli accordi esistenti in tema di
investimenti, colmandone le lacune e sviluppando una nuova generazione
di trattati, senza necessità di risolvere contenziosi diretti fra
investitori e Stati, introducendo obblighi per gli investitori e
definizioni più precise e restrittive in merito ai loro diritti” (1).
Questa capacità normativa di livello comunitario rappresentava a livello
mondiale un’inversione di tendenza rispetto alla crescente capacità del
capitalismo internazionale di interferire nel potere legislativo e
giudiziario, proprio grazie a strumenti come gli investor-state arbitration.
Non
si tratta di una questione da poco, dato che una delle principali linee
di tendenza patologiche dei nostri tempi è proprio il fatto che
l’economia debordi in maniera ormai incontrollabile nella sfera
politico-giuridica, mettendo a rischio diritti essenziali, in primo
luogo quelli che tutelano il lavoro, ma anche in tema di protezione
dell’ambiente, della salute, dei beni comuni essenziali come suolo,
acqua, aria, dei fattori strategici nello sviluppo dei popoli, come la
cultura e l’istruzione – insomma tutte quelle aree che dovrebbero essere
sottratte alla pura logica del profitto, dato che investono l’essere
umano in quanto entità non puramente materiale.

Geopolitica e geo-economia del TTIP

Non
vi è dubbio che storicamente lo sviluppo dell’Unione Europea e
dell’egemonia del capitalismo Usa siano strettamente connessi. Nessuno
può negare infatti che il processo di unificazione europea è stato
originariamente dipendente dai legami economici che gli Usa avevano
stabilito nel corso della Seconda Guerra mondiale, prima, e consolidato
poi con il Piano Marshall, che ha rappresentato un fondamentale
strumento di integrazione delle economie del Nord Atlantico. Il TTIP è
in perfetta continuità con questa storia: ben comprensibile dunque che
lo si voglia introdurre oggi che quell’asse portante della storia
economica del secondo dopoguerra è minacciato dalla crescente potenza
economica dei Paesi fino ad oggi rimasti ai margini della struttura
trilaterale post-bellica, imperniata sugli Usa, Europa occidentale e
Giappone. Brasile, Cina, India e Russia sono i nuovi competitori che
possono mettere in difficoltà l’asse nord-atlantico, anche perché i loro
sistemi politici hanno natura e storia molto diverse da quelli
dell’Unione Europea, le cui fondamenta dovrebbero ancora posare sul
trinomio libertà, eguaglianza e fraternità.
Il TTIP è quindi prima di
tutto concepito nel quadro di una politica di potenza economica che ben
poco ha a che vedere con la liberalizzazione dei flussi commerciali e
degli investimento a livello mondiale, e ancor meno con quella crescita
del lavoro e dell’occupazione che pure viene indicata dai fautori del
TTIP come benefico effetto della sua introduzione. Ben poco infatti
contano oggi i presunti 120 miliardi di euro di crescita che dovrebbero
derivare dall’accordo, dato che, distribuiti nel’arco di un decennio,
incidono per nemmeno mezzo punto percentuale del PIL europeo. La
crescita in termini di occupazione e di sviluppo non è quindi
l’obiettivo reale di cui tanto parlano i documenti del misterioso High Level Working Group on Jobs and Growth,
soprattutto in presenza di una crisi che ha devastato l’economia
europea in termini che è ancora difficile quantificare, ma rispetto ai
quali il citato beneficio è sicuramente ben poca cosa.
Quello che più
conta, ai fini della lotta di potere economico globale, è la
definizione di una sorta di “carta dei diritti” giuridici fondamentali
delle grandi multinazionali, rispetto a quelli dei cittadini e dei
lavoratori. Tale “carta dei diritti” si rende sempre più necessaria per
le ragioni che l’economista americano Michael Hudson ha recentemente
illustrato in modo estremamente chiaro: siamo entrati nella “Fase 2”,
quella della “eredità” dell’economia speculativa che da trent’anni ha
mosso l’economia mondiale, finanziarizzandola. Mentre prima le grandi
forze economiche hanno utilizzato speculativamente la loro forza
finanziaria, oggi gli stessi protagonisti della speculazione mondiale
sono pronti “a comprare proprietà in contanti, a partire dalle proprietà
pignorate che le banche vendono a prezzi stracciati” – mentre i
cittadini indebitati impiegano i loro salari per pagare i debiti di
mutui, carte di credito e acquisiti a rate, restando loro sì e no un
quarto della loro disponibilità economica per acquistare beni e servizi.
“Si
va creando una nuova classe neo-feudale che vive di rendita, impaziente
di acquistare strade per imporvi pedaggi, di acquisire diritti di
gestione dei parcometri (come accaduto a Chicago), di comprare prigioni,
scuole ed altre infrastrutture essenziali. L’aspirazione è di
introdurre costi finanziari e quindi rendite da pedaggio nei prezzi che
vengono richiesti per accedere a servizi pubblici essenziali. I prezzi
quindi non salgono perché i costi e i salari aumentano ma a motivo di
queste rendite monopolistiche e di altre rendite di posizione. (…)
Questo ambiente post-speculazione, in un’austerità incatenata al debito,
sta permettendo al settore finanziario di diventare un’oligarchia molto
simile ai latifondisti del XIX secolo. Si guadagna non più col prestare
moneta, dato che l’economia è oberata dai debiti, ma possedendo
direttamente beni da cui ricavare una rendita. Siamo quindi nella fase
del “collasso economico” dell’economia della speculazione finanziaria.
Affrontare questa eredità e la presa di potere della finanza sarà la
battaglia politica fondamentale per il resto del XXI secolo”(2).

Un nuovo organismo sociale per l’Europa

La
trasformazione della capacità economico-finanziaria in potenza politica
è infatti da sempre uno degli aspetti fondamentali della storia del
capitalismo, indispensabile per comprendere la crisi attuale e per
risolverla.
Il liberismo di matrice anglo-sassone ha sempre costruito
questo potere proprio utilizzando l’arma ideologica della libertà di
commercio, dell’eliminazione delle barriere tariffarie e della
liberalizzazione del profitto da vincoli e obblighi normativi: dietro
queste astratte affermazioni si sono in realtà costruiti imperi
economici, concentrazioni di capitali, rendite di posizione e oligarchie
finanziarie che oggi sono in grado di condizionare la vita di popoli e
continenti interi. TTIP è quindi interesse fondamentale solo per quelle
aziende multinazionali che hanno oggi bisogno di influire sulle
legislazioni statali per difendere le proprie posizioni monopolistiche –
non è certo nell’interesse della stragrande maggioranza delle imprese
europee, piccole e medie imprese nelle quali l’imprenditore ed i
lavoratori collaborano fianco a fianco per fini economici comuni, anche
se non sempre con piena coscienza di questa comunanza di vitali
interessi economici e sociali.
Chiarire questo punto è fondamentale
per il futuro dell’organizzazione sociale dell’Europa: sono proprio le
astratte proclamazioni del liberismo che in realtà impediscono che la
vita economica, sottratta al pericolo di un nuovo feudalesimo, sia
autonomamente organizzata ed amministrata, dato che accordi come TTIP
comportano la prosecuzione e l’estensione della patologica commistione
della logica del puro profitto con la ricerca del controllo politico,
fattori entrambe alla base della crisi sia dell’economia che della
democrazia occidentale odierna.
Solo un’economia autonomamente
amministrata da imprenditori, lavoratori e consumatori, organizzati in
Consigli dell’Economia autonomi dai partiti, può sottrarre la democrazia
ai potentati economico-politici che, essendo i veri creatori di questa
come delle precedenti crisi del capitalismo, non saranno mai in grado di
risolverle con equità ed efficacia. Fino a quando infatti non si
comprenderà che l’economia deve essere ricondotta nell’ambito delle pure
esigenze della produzione, circolazione e vendita di beni e servizi,
restando distinta dalla componente politico-giuridica, per un verso, e
culturale-spirituale delle società, dall’altro; e che, di conseguenza, i
diritti del lavoro e la creazione della moneta non debbono essere
confusi nell’economia, in quanto né il lavoro né la moneta sono merci;
fino a quando tutto questo non sarà compreso e tradotto
organizzativamente in pratica – il capitalismo occidentale recherà
sempre con sé conflitti sociali e guerre fra i popoli. In presenza di un
potere economico in grado di dominare quello politico-giuridico, la
democrazia non può che rappresentare una finzione dietro la quale si
muovono in assoluta libertà gruppi di interessi e poteri occulti.
Il
TTIP, i cui colloqui riprenderanno il prossimo ottobre, comporta, da
questo punto di vista, un grande pericolo per il futuro assetto
dell’Unione Europea, che, già indebolita all’interno da una crisi
devastante, si troverà ancor più trascinata nella pedissequa imitazione
del capitalismo anglo-sassone, sistema che non è mai stato compatibile
con il fondamentale impulso a libertà, eguaglianza e fraternità che da
oltre due secoli ispira, nel bene e nel male, la storia di tutta
l’Europa.

1) “A transatlantic corporate bill of rights”, Corporate Europe Observatory and Transnational Institute, 19 luglio 2013.
http://www.opendemocracy.net/ournhs/corporate-europe-observatory-transnational-institute/transatlantic-corporate-bill-of-rights
2)
Michael Hudson, “From the bubble economy to debt deflation and
privatization”, Real-world Economics Review, issue no. 64, 2 July 2013,
pp. 21-22.
http://www.paecon.net/PAEReview/issue64/Hudson64.pdf

Fonte: http://www.clarissa.it/editoriale_n1900/L-accordo-economico-transatlantico-TTIP-e-il-potere-dell-economia

Pubblicato anche su Megachip.

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