di Rostislav Ishchenko.
Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha descritto le ultime tendenze della politica estera americana con una frase molto interessante. (Stiamo parlando delle proposte dei politici americani volte a consentire all’Ucraina di colpire la Russia con armi americane)
«A quanto ho capito, queste conversazioni riflettono, in un certo senso, la disperazione e la consapevolezza che non raggiungeranno il loro obiettivo con i soliti mezzi onesti utilizzati nel diritto internazionale, anche durante le ostilità», ha detto Lavrov.
In effetti, tutto è corretto. Gli Stati Uniti comprendono che il loro piano per costringere la Russia all’obbedienza è fallito e che il fallimento di questo piano significa il crollo delle speranze di mantenere l’egemonia americana. Di conseguenza, la Pax Americana è in agonia.
Ma nella forma questa frase è una raccolta completa di ossimori. Quali mezzi equi vengono mai utilizzati nel diritto internazionale in linea di principio e soprattutto durante le ostilità? Nessuno ha mai esitato a rubarsi reciprocamente le tecnologie, ad attirare alleati, ad organizzare “rivoluzioni di velluto”, “colorate” e altre “rivoluzioni” che, dal 1945, hanno spostato i paesi dell’Europa orientale, e in parte del Terzo mondo, da un campo all’altro; di condurre guerre per procura l’uno contro l’altro, di schierare missili in Turchia e a Cuba, di inviare aerei spia e di abbatterli, ecc.
Per quanto riguarda le azioni militari, dal momento dell’adozione della Carta delle Nazioni Unite, qualsiasi azione militare non sanzionata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, nel diritto internazionale, per dirla in modo delicato, non è approvata (non scriverò come viene definita nel diritto internazionale, chi è interessato può cercarlo da solo, ma è molto disapprovata).
Tutti lo sanno, e tutti, quando necessario, conducono azioni militari non sanzionate dall’ONU: semplicemente non le definiscono “guerra”, ma in qualche altro modo. Gli astuti americani sono riusciti addirittura a condurre la guerra in Corea sotto l’egida dell’ONU. Non abbiamo più permesso loro di fare una cosa del genere, ma abbiamo commesso un errore quando, per principio (il boicottaggio dell’ONU a causa del riconoscimento della Repubblica di Cina [Taiwan], e non della Repubblica Popolare Cinese, come membro del Consiglio di Sicurezza), l’URSS nel 1950 ha ignorato la sessione sulla questione coreana, permettendo così agli alleati della Repubblica di Corea di coprirsi con la bandiera dell’ONU.
Quindi, parlare di “mezzi onesti” applicati nel diritto internazionale durante le azioni militari è alquanto ingenuo. Se si è arrivati alla guerra, tutti sanno che la storia sarà scritta dal vincitore, che sarà anche considerato “onesto e giusto”.
In questo caso, nella formulazione di Lavrov si inserisce perfettamente la classica frase occidentale sull’«ordine basato sulle regole». Ma questa è ormai così compromessa dagli americani, che l’hanno usata fino all’esasperazione, che persino i “mezzi onesti” durante le azioni militari sembrano più decenti.
Il problema, tuttavia, è che il ministro degli Esteri russo è un diplomatico altamente professionale e una persona molto istruita. È capace di esprimere i propri pensieri in modo preciso, aforistico, e padroneggia il linguaggio rarefatto e aulico della politica internazionale forse meglio di chiunque altro al mondo, almeno nella sua variante occidentale (non mi permetto di giudicare i cinesi e i giapponesi, poiché non ho il piacere di valutare le loro espressioni originali).
Dopo la morte di Kissinger, Lavrov è l’ultimo dei diplomatici “del tempo passato” (come diceva Panikovsky), che continua a giocare un ruolo chiave nella politica internazionale. Il fatto che abbia dovuto creare una costruzione verbale complessa e internamente contraddittoria per esprimere la sua posizione testimonia un’alterazione senza precedenti del campo di gioco globale, avvenuta sotto i nostri occhi.
Semplicemente, molti non l’hanno ancora capito, non l’hanno visto, ma Lavrov, come politico esperto, non solo l’ha notato, ma l’ha anche detto. Tuttavia, vincolato dalle esigenze della sua posizione e costretto a utilizzare formulazioni diplomatiche consolidate, è riuscito a dimostrare un livello altissimo di preoccupazione solo attraverso la creazione di questa complessa perifrasi.
Il fatto è che il linguaggio diplomatico è estremamente concreto e quindi povero di sfumature. Tutte le sue apprensioni e profonde preoccupazioni non sono rivolte al grande pubblico, che spesso non riesce a capire a chi servano, ma a professionisti come lui che stanno dall’altra parte. I diplomatici non dicono “se farete così, vi dichiareremo guerra”: il loro compito è semmai far capire all’avversario qual è il livello di rischio, senza però mettere il proprio paese in una situazione di stallo con azioni preannunciate. Il lavoro del diplomatico è minacciare in modo tale da mantenere una via di fuga e uno spazio di manovra, nel caso in cui l’avversario non si sia spaventato e il proprio paese non sia ancora pronto a combattere.
Quando si arriva agli ultimatum, entrano in scena i militari e i diplomatici vengono richiamati in patria. Ognuno assolve al proprio compito.
Attualmente non ci sono più diplomatici viventi che abbiano lavorato prima del 1939, e tanto meno prima del 1914. Il mondo di allora somigliava un po’ al nostro contemporaneo. Le grandi potenze erano diverse. Formavano varie combinazioni, stringevano alleanze l’una con l’altra, passavano da un’alleanza all’altra, formavano blocchi militari contrapposti e, fino all’ultimo momento, esitavano da che parte schierarsi.
Inoltre, le grandi potenze avevano un’ampia clientela: piccoli paesi europei indipendenti, alcuni dei quali avevano perso lo status di grande potenza, altri non l’avevano mai avuto, gli stati dell’America Latina, la Turchia (il malato d’Europa), la Persia, la Cina, l’Abissinia — insomma tutto ciò che non era stato suddiviso come colonie.
Districarsi attraverso questa foresta di accordi, inganni, interessi e ambizioni era praticamente impossibile, le armi nucleari non esistevano ancora, le due guerre mondiali con le loro terribili perdite non avevano ancora inflitto all’umanità uno spaventoso trauma psicologico, quindi, a differenza dei tempi attuali, la guerra era formalmente considerata un modo legittimo per risolvere le controversie politiche, se queste risultavano troppo intricate per essere risolte con mezzi pacifici.
Ma tutti i diplomatici moderni, incluso Lavrov, hanno lavorato in un’epoca in cui il mondo era chiaramente diviso in sfere di influenza delle superpotenze. Anche dopo il crollo dell’URSS, la Russia ha dichiarato il suo diritto a una zona di interessi esclusivi nello spazio post-sovietico, e l’Occidente non le ha negato questo diritto.
Le armi nucleari, che garantivano la deterrenza nucleare (l’impossibilità di una guerra tra superpotenze, poiché non ci sarebbe stato un vincitore), costringevano i principali attori, se non a rispettare il diritto internazionale letteralmente (le superpotenze hanno sempre rivendicato il diritto di mantenere l’ordine nella propria sfera di influenza senza preoccuparsi dell’ONU — i problemi sorgevano se il mantenimento dell’ordine si protraeva), almeno a condurre la lotta nell’ambito del famigerato “ordine basato sulle regole” — non formulato ufficialmente da nessuno, ma compreso da tutti.
Il fatto è che, secondo le regole del XX secolo, gli americani hanno già perso, avrebbero dovuto riconoscere la sconfitta, ritirarsi, cederci il controllo di una parte del mondo e poi cercare di riorganizzarsi e ricominciare la lotta da capo. Così hanno fatto gli Stati Uniti dopo il Vietnam e la crisi petrolifera degli anni ’70, così abbiamo fatto noi dopo la catastrofe degli anni ’90.
Ma questa volta tutto è andato diversamente. Le nuove élite occidentali, in primo luogo, hanno creduto alla propaganda del proprio eccezionalismo. Questa è la più grande disgrazia che possa capitare a una persona. Le persone che credono alla propria propaganda e perdono il senso dell’autoironia sono esteriormente ridicole, ma interiormente spaventose, perché i crimini più terribili vengono commessi da persone estremamente serie, responsabili fino alla nausea, assolutamente sicure della propria infallibilità.
In secondo luogo, dopo decenni di distensione, hanno perso la paura delle armi nucleari. Ne è rimasta una quantità molto inferiore rispetto a prima. La limitata quantità di vettori intercontinentali in stato di allerta, e quindi pronti all’uso in caso di attacco preventivo o di risposta, limita ulteriormente il numero di testate strategiche disponibili.
Considerando la presenza di sistemi di difesa antimissile che garantiscono che una parte (non si sa quale) delle testate non raggiungerà l’obiettivo, si è costretti a distribuire economicamente le proprie capacità offensive tra i vari bersagli. E i bersagli sono molti: centri politici e amministrativi, zone industriali, ognuna delle quali richiede più di una testata, e obiettivi militari di particolare importanza (flotta nelle basi, basi dell’aviazione strategica, gruppi di truppe dispiegate, ecc.).
In generale, la valutazione di militari e scienziati, secondo cui nei primi minuti di una guerra nucleare morirebbero da cento a duecento milioni di persone, fino a un miliardo nella prima settimana, e poi chissà, non fa alcuna impressione sulle élite occidentali. Sono pronte a rischiare. Tra l’altro, anche nella nostra società cresce il numero di persone pronte a rischiare, motivando la propria posizione allo stesso modo dell’Occidente: alcuni credono che “non oseranno rispondere”, mentre altri sono sicuri che “non hanno più missili, e quelli che hanno sono arrugginiti”.
Di conseguenza, invece di riconoscere la sconfitta, gli Stati Uniti e l’Occidente collettivo da loro guidato hanno continuato il gioco, non per un pareggio, che sarebbe stato almeno in parte comprensibile, ma per la vittoria. Prima provocavano il conflitto tra Russia e Ucraina, ora provocano il conflitto tra Russia ed Europa (cioè tra la Federazione Russa e la NATO), e questo sullo sfondo delle crescenti crisi cinese (che va ben oltre la questione di Taiwan) e mediorientale.
Volete immaginarvi nei panni di Lavrov? Immaginate di essere un campione del mondo di scacchi, di arrivare a un torneo, di preparavi per la partita, solo che vi danno delle carte dicendovi che ora giocherete a poker, e si meravigliano sfrontatamente del fatto che siete arrivati senza una Colt, insinuando che nessuno ha mai vinto così.
Che cosa dovrebbe dire Lavrov agli americani affinché si rendano conto del pericoloso gioco a cui stanno giocando? Minacciare un attacco nucleare non è il suo compito. Per questo abbiamo deputati, esperti e persino un intero vice-presidente del Consiglio di Sicurezza. Il lavoro del diplomatico è mitigare, non aumentare la tensione. Parlare in modo semplice e senza mezzi termini per spiegare loro il pericolo del corso intrapreso? Ma Lavrov ha già parlato a degli imbecilli. Rimane solo da constatare che il diritto internazionale potrebbe essere un diritto internazionale, se solo a qualcuno importasse di averlo come tale.
Ma senza diritto internazionale (che è sempre imperfetto e sempre a favore dei potenti, ma che di tanto in tanto funziona almeno per alcuni) non c’è diplomazia. Se tutto è inganno e nulla è credibile, non c’è nulla su cui negoziare. E quando le muse tacciono, iniziano a parlare le armi.
I diplomatici si sono alzati dal tavolo, hanno raccolto le loro cose e stanno uscendo dalla sala. I militari si affollano alle porte con le mappe, pronti a segnare su di esse i loro obiettivi. Di questo ha parlato Lavrov, ma difficilmente sarà ascoltato dall’Occidente che ha imboccato questa strada.
Per ulteriori informazioni su come si sono mostrati gli alleati e i partner della Russia la scorsa settimana, si veda il materiale Alleati e partner della Russia. Sempre più paesi del Sud del mondo assumono posizioni amichevoli nei confronti di Mosca.
Fonte: https://ukraina.ru/20240527/1055299816.html.
Traduzione dal russo a cura di Pino Cabras.
* Rostislav Ishchenko è un politologo e analista politico ucraino e russo. Nato a Kiev nel 1965, ha conseguito la sua istruzione presso l’Università Nazionale di Kiev Taras Shevchenko. In passato, ha lavorato come diplomatico ucraino e ha ricoperto il ruolo di osservatore presso l’OSCE. Attualmente, Ishchenko è presidente del Centro per l’analisi e la previsione sistemica in Ucraina. È anche un collaboratore frequente dell’agenzia di stampa “RIA Novosti” e di altri media russi. Ecco alcuni punti salienti della sua carriera e delle sue posizioni:
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