Scontrini pazzi, scacciapensieri e demolizione del turismo

 
È il 3 maggio 1982. Al secondo giorno della gita di terza media ho ancora 50mila lire intonse in tasca. Il bus proveniente dall’Ogliastra ha già girato mezza Gallura, con il suo carico di adolescenti con gli ormoni irrefrenabili, che non si stancano mai di riascoltare “Just Can’t Get Enough” dei Depeche Mode ad alto volume, assieme a poche altre gemme di synth pop e un Battiato in stato di grazia, come in un sogno. Il bus si ferma a Porto Cervo e la massa dei giovanissimi gitanti raggiunge la Piazzetta delle Chiacchiere, ancora poco popolata, senza il vippame dell’alta stagione e i suoi rumorosi eccessi. Ho l’incauta idea di entrare in un bar e ordinare un’aranciata, che normalmente avrei pagato circa 300 lire, e che – tardivamente – lì scopro costare ben 5mila lire. Il dieci per cento del mio budget di emergenza evapora nella mia ingenua scoperta della Costa Smeralda. Pertanto oggi, quarantun anni dopo, non sobbalzo di certo, quando leggo degli scontrini spropositati che atterriscono turisti ben più attempati e perfino più ingenui del ragazzotto che ero.
Niente di nuovo, dunque, sotto il sole di Porto Cervo.
Non può essere mica quella la base per discutere una cosa pur molto seria come la crisi del turismo, perché i ritrovi cafoni dei ricconi non sono una novità nei modi esosi con cui scremano ed eleggono la loro clientela.
La novità è semmai che da alcuni anni il sistema turistico italiano è sotto attacco. La gestione de “Lo Gran Morbo de lo XXI Secolo” è stata – tra le tante altre pessime cose – anche un’aggressione demolitoria e intenzionale all’economia di prossimità, alla piccola impresa, al turismo, all’autoimpiego. Quel che è risorto è rimasto comunque ferito da quella gestione e risente degli effetti di un disperato aumento dei prezzi che si aggiunge alla forte diminuzione delle capacità di spesa della classe media italiana. Gli avvoltoi di Davos hanno preparato il terreno per spolpare l’immenso indotto turistico della Sicilia, della Sardegna e della penisola italiana. Dopo averlo reso vulnerabile alle scorribande delle multinazionali straniere, ora lo mostrano attaccabile persino dal paragone con il piccolo indotto dell’Albania. Svilire il prezzo degli attivi aziendali è parte di un attacco concentrico e sistematico, che si unisce anche alle pretese ambientali smodate volte a deprezzare il patrimonio immobiliare in blocco e alla campagna politica che dipinge come climaticamente invivibili alcuni dei luoghi più accoglienti del pianeta.
Lo scontrino pazzo distrae dal vero problema, che è un pochino più esteso: dopo trent’anni di declino malguidati da classi dirigenti che si ritagliavano le loro prebende mentre svendevano il proprio paese paralizzandolo con il “vincolo esterno”, oggi qualcuno punta ad accelerare quel declino arraffando tutto in modo massiccio e gettando sale nelle piaghe della crisi.
Il 4 maggio 1982 non so ancora niente di tutto questo. Il bus raggiunge il magnifico borgo di Castelsardo e veniamo sguinzagliati tra i negozietti di artigianato sardo. Spendo altre 5mila per un piccolo strumento musicale, uno scacciapensieri uguale a “sa trunfa” di mio nonno. Ripongo in tasca la scatola che lo imballa e lo suono anche in viaggio, interferendo con le vibrazioni dei Depeche Mode. Potente, questo artigianato sardo, mi dico. Riprendo la scatola dalla tasca. Leggo: fabbricato a Monza. Mi sento ingannato anche stavolta.
Ma oggi, decenni dopo, altro che Monza, nulla sembra rimanere nel perimetro di questa repubblica, chissà dove fabbricano gli scacciapensieri e tutto il resto, chissà dove vola il valore aggiunto. Manifattura, case, turismo, cultura, per chi vuole resettare l’economia e hackerare l’essere umano, devono tutti finire in poche mani lontane, mosse da intenti e strategie che ci considerano tutti sacrificabili. Un prezzo decisamente – questo sì – troppo alto.

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