Fuochi d’estate sul Medio Oriente

di Simone Santini – clarissa.it.

“Israele si prepara a cominciare una guerra per la primavera o l’estate, ma la decisione non è ancora presa”. Non sono i soliti rumors o le conclusioni di un analista ma le shoccanti dichiarazioni del nemico numero uno nella regione dello stato ebraico, il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad.
Il leader iraniano non ha precisato contro chi Tel Aviv possa scatenare il conflitto. È certo, e gli stessi israeliani non ne fanno mistero, che le Forze armate con la stella di David e i vertici politici sono pronti ad un nuovo attacco, soprattutto, contro Hezbollah in Libano, una ferita rimasta aperta con la guerra nell’estate del 2008. Fu una sorta di sconfitta militare e politica per Israele, che tuttavia ottenne un vantaggio strategico col dislocamento sul confine di forze d’interposizione europee (in particolare italiane, spagnole, francesi) col rischio permanente che queste vengano trascinate in un conflitto aperto con le milizie sciite libanesi, nel caso scoppi ancora la guerra.
Altro scenario di crisi sono ovviamente i Territori occupati, in particolare Gaza. E non è da escludere che Israele pensi di accendere una minaccia in tutta le regione per arrivare, con una progressiva escalation, fino a Teheran. Ma, allo stesso tempo, anche un attacco preventivo contro i siti nucleari iraniani è ormai ammesso come opzione reale da tutti gli osservatori.
Ahmadinejad, nel perfetto stile della retorica politica ad uso interno, mostra di non temere l’eventualità. “I Paesi della regione sono pronti a risolvere la questione una volta per tutte (con Israele)” sostiene, e anche nel caso di nuove sanzioni da parte occidentale “se qualcuno cercherà di creare problemi all’Iran la nostra risposta non sarà come quelle del passato. Questa risposta comporterà qualcosa per cui si pentiranno”, adombrando così la possibilità del blocco del Golfo persico attraverso cui transita gran parte del petrolio mediorentale.
Il presidente continua la politica dialettica del doppio binario, mostrarsi forte per poter trattare. Infatti “la questione dello scambio di combustibile nucleare non è chiusa, l’Iran è sempre pronto ad uno scambio in una cornice di equità”, ovvero che avvenga secondo modalità che garantiscano pienamente Teheran, ma che gli Stati Uniti hanno già rifiutato seccamente.

Cecità politica quella di Ahmadinejad? Probabilmente il presidente non si rivolge più agli occidentali, con cui il dialogo sembra ormai definitivamente compromesso, ma a Russia e Cina, gli unici paesi ormai in grado di sventare una nuova guerra in Medio Oriente. E proprio da Mosca, infatti, giungono in questi giorni i segnali più interessanti, e inquietanti.
Per il capo di stato maggiore russo, Nikolai Makarov, un attacco all’Iran avrebbe “conseguenze terrificanti non solo per l’Iran ma anche per noi, così come per tutto l’insieme della comunità asiatico-pacifica”. E tuttavia il generale non ha escluso che gli Stati Uniti, una volta ottenuti i risultati sperati in Iraq e Afghanistan, possano concentrarsi sull’Iran, paese con cui la Russia stringe “tradizionali rapporti d’alleanza” nei settori più disparati.
E l’ex capo di stato maggiore (ricopriva tale carica all’epoca dell’11 settembre), il generale Leonid Ivashov, attualmente analista politico-militare e presidente dell’Accademia di problemi geopolitici, si spinge addirittura oltre. “Un attacco contro l’Iran è all’ordine del giorno. Con ogni probabilità verrà sferrato da Stati Uniti e Israele. L’Iran si trova in uno stato di totale vulnerabilità verso un’aggressione e sta intraprendendo ogni tentativo, politico, economico, militare, al fine di poter sopravvivere e proteggere la propria sovranità. Molte cose dipenderanno dalla posizione di Russia e Cina” ha detto il generale all’agenzia Ria Novosti.
E da Mosca i segnali non sono rassicuranti. Se ormai appare probabile che Medvedev appoggerà la politica di nuove sanzioni contro l’Iran presso il Consiglio di Sicurezza, il Cremlino ha annunciato il blocco della fornitura a Teheran del sistema difensivo missilistico S-300 il cui contratto era già stato stipulato da tempo. Il congelamento, secondo le autorità russe, avviene “per motivi tecnici ed a tempo indeterminato, finché non verranno risolti”. Una falla non trascurabile nel sistema difensivo aereo iraniano.
Per far luce sui reali termini della questione può essere utile riferirsi alle dichiarazioni del primo ministro di Israele, Bibi Netanyahu, che negli stessi giorni dell’annuncio si trovava in visita diplomatica ufficiale a Mosca. In una lunga intervista al quotidiano Kommersant ed all’agenzia Interfax, Netanyahu ha illustrato dapprima il nuovo clima internazionale sull’Iran: “Quando dicevo che la più grande minaccia che l’umanità deve affrontare è il tentativo dell’Iran di dotarsi di armi nucleari, ricevevo scetticismo e molte sopracciglia sollevate, anche da Washington e Mosca. Ora non è più così. Esiste ormai una valutazione comune che l’Iran è sempre più vicino al suo obiettivo e che questo debba essergli impedito. Vi è la consapevolezza di essere in ritardo. […] Il tempo delle sanzioni è ora. E queste sanzioni dovranno essere paralizzanti. […] Nella comunità internazionale non è più in discussione ormai se l’Iran è un problema, se accumuli materiale nucleare da usare per lo sviluppo militare. Tutto ciò non è più in discussione. Ciò che è in discussione è solo quale tipo di sanzioni verrà applicato”.
E a precise domande degli intervistatori sul collegamento tra lo stop della fornitura missilistica russa all’Iran e la minaccia israeliana di possibile sostegno al riarmo della Georgia, Netanyahu ha risposto con estrema abilità diplomatica: “Come fornitori di armi abbiamo cura di tenere conto di tutte le considerazioni in questo genere di rapporti, operando per la stabilità in regioni instabili, e ci aspettiamo che la Russia faccia la stessa cosa. […] Ho accolto con soddisfazione le dichiarazioni di Medvedev (sul blocco delle forniture all’Iran) perché so che l’attuale politica russa è volta a promuovere la stabilità. Questa è buona politica. Non voglio dire di più e non confermo che abbiamo avuto colloqui su questo argomento. Il resto sono speculazioni della stampa”.

E negli stessi giorni il segretario di Stato americano Hillary Clinton si trovava in missione diplomatica in un altro centro focale della crisi con l’Iran, la Penisola arabica. A Doha, nel Qatar, in un discorso davanti gli studenti del campus Carnegie Mellon, la Clinton ha lanciato l’allarme contro la deriva militarista di Teheran: “La vediamo in questo modo: crediamo che il governo iraniano, dal presidente al parlamento, sia stato soppiantato e che l’Iran stia andando verso una dittatura militare. E’ il nostro punto di vista […] Non attaccheremo l’Iran, stiamo invece cercando di unire la comunità mondiale per fare pressione all’Iran attraverso sanzioni delle Nazioni Unite. Queste pressioni saranno specificatamente rivolte alle imprese controllate dalla Guardia Rivoluzionaria […ma…] è molto difficile restare passivi di fronte a un Iran armato e che continua a portare avanti il suo programma di armi nucleari”.
Evocare un colpo di stato militare a Teheran (quasi una sorta di auspicio) può essere una delle tattiche utilizzate per indicare come ormai fuori controllo il regime iraniano, guidato da fanatici pronti ad usare le armi atomiche, e dunque giustificare qualunque intervento. Questo ha provocato la tagliente risposta del ministro degli Esteri iraniano Mottaki, a cui pare oggettivamente arduo controbattere: “Gli americani stessi sono imprigionati in una sorta di dittatura militare che impedisce loro di comprendere le realtà della regione. Cos’è dittatura militare: uccidere un milione di iracheni, per la gran parte innocenti, o stabilire scambi col popolo iracheno, accogliendo decine di migliaia di immigrati e aiutando il governo a mettere in sicurezza il paese, garantendone la sovranità, come stiamo facendo noi? Cos’è maggiore indizio di dittatura militare: attaccare sanguinosamente i matrimoni in Afghanistan o dare rifugio a tre milioni di afgani?”.
La successiva tappa del viaggio della Clinton è stata Riyad per incontrare il re Abdallah. Scopo della missione, oltre rassicurare una Arabia Saudita che si troverebbe in prima linea in caso di attacco all’Iran, è la questione delle sanzioni e delle forniture energetiche destinate alla Cina. I sauditi forniscono già il 20% del petrolio di cui Pechino necessita, essendo il primo fornitore, seguiti proprio dagli iraniani con una quota del 15%. Gli americani vorrebbero che i sauditi fossero pronti a supplire col loro petrolio all’eventuale stop delle esportazioni iraniane in caso di sanzioni o peggio ancora di conflitto. Questo potrebbe rassicurare la Cina e spingerla a sostenere l’azione americana al Consiglio di Sicurezza, e tuttavia esporrebbe il paese del dragone al rischio di veder considerevolmente aumentare la quota del suo fabbisogno energetico sotto il controllo, diretto o indiretto, degli Stati Uniti, ovvero il proprio potenziale (o effettivo) antagonista nel contesto globale.
L’atteggiamento della Cina rimane una incognita, in una posizione estremamente delicata che corre sul filo della questione delle sanzioni. Nella precedente intervista già citata, Netanyahu ha mostrato estrema lucidità sul punto. Pur ribadendo, infatti, che le sanzioni devono essere applicate subito e in maniera aggressiva, il politico israeliano non si aspetta affatto che queste possano risolvere definitivamente il problema. Al contrario pare potersi interpretare che dal suo punto di vista (quello di un falco del “partito del bombardamento”) come le sanzioni siano un semplice passaggio tattico destinato a risultare sostanzialmente inefficace ed a cui porre successivamente rimedio con una ulteriore escalation. Se, infatti, le sanzioni dovessero fallire, in questo gioco di continui rilanci, cosa arriverà dopo?

Fonte: clarissa.it

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