Il Draghistan più grande

 
Accompagnato dalla consueta nuvola di pipistrelli, è riapparso al pubblico l’ex Sultano del Draghistan. Al pari di alcuni altri personaggi, tipo Bernard-Henry Lévy o Giuliano Ferrara, costui svolge una funzione indispensabile, per la quale non finiremo mai di ringraziarlo. Infatti, quando lo sentiamo parlare, istantaneamente sappiamo quale sia la posizione più saggia, più umana, più equilibrata e veritiera: quella opposta alla sua.
Dal pulpito della Global Boardroom Conference del «Financial Times», il “non-coraggioso affarista” ha ripetuto come uno scolaretto diligente il nuovo verbo dei padroni universali. Lungi dal vedere nella crisi dell’Europa le cause che lui stesso in buona compagnia ha determinato, anziché cospargersi il capo di cenere, rilancia la scommessa come un giocatore incallito: auspica più cessioni di sovranità all’Unione europea, nonché una postura ancora più bellicosa contro la Russia.
Su questo punto il ventriloquo della finanza anglosassone parla pappagallescamente addirittura di cose su cui non aveva mai aperto bocca. E (lo diciamo per il suo bene) avrebbe fatto bene a tenere ancora il becco chiuso, perché ha riciclato fuori tempo massimo e in modo pedestre tutte le veline più trite e ritrite della CIA. Non ci fa una bella figura, anche se i suoi grandi giornali amici sono tutta una bava.
Secondo lui occorre sloggiare la Russia non solo dalla sua funzione co-dirigente in Europa (come ogni tanto capita di pensare a qualche Napoleone o a qualche Adolfo, con risultati disastrosi), ma anche dalla Siria, su cui il nostro pipistrellone riprende perfino la menzogna sul fatto che Assad avrebbe usato le armi chimiche. Se in Siria avessimo aspettato Draghi, l’ISIS avrebbe finito di distruggere l’antica Palmira e magari sarebbe diventata uno Stato, certo spietato e disumano, ma mai quanto la sua politica economica.
L’altra perla del banchiere più dolce del mondo è che l’Occidente non doveva abbandonare l’Afghanistan. Un proposito perfetto, se non per il trascurabile particolare che l’Occidente non è che abbia scelto di andarsene: ha subito una clamorosa disfatta prima morale e poi militare e politica e se n’è dovuto andare da Kabul a calci nel sedere. Hai voglia di “non abdicare con i compromessi ai nostri valori”. Fai vent’anni di disastri e te ne vai perché ti mandano via, tu, i tuoi compromessi, le tue rigidità, i tuoi valori e i tuoi disvalori. Tutto il pacchetto se n’era andato a ramengo, proprio mentre il resto del mondo cresceva e si occupava di cose più serie delle guerre mondiali.
L’Alleanza atlantica e tutti i suoi organi di stampa hanno fischiettato facendo finta di niente. E ora arriva lui a tirare fuori i morti dalle tombe, pronto a guidare la nuova identità dell’Unione europea: più orientata alla guerra, all’economia bellica, alla russofobia strutturale e permanente, tutta tesa a legami istituzionali ancora più stretti fra gli Stati per fare un’Unione istituzionalmente più integrata che domina popolazioni impoverite, assai più vassalla degli Stati Uniti d’America. L’Europa, insomma: un Draghistan più grande, più povero, più esposto alla guerra atomica. I soliti buoni affari che si possono concludere con questo ometto.

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