In terra incognita

L’azione militare in Ucraina disegna uno scenario che suscita inevitabile preoccupazione per il futuro della stabilità e della sicurezza in Europa. Oggi entriamo in una terra incognita piena di insidie e sviluppi inattesi che impongono a chi governa una estrema dose di precauzione.
La reazione della Russia ai tanti anni della crisi ucraina, tuttavia, non era inattesa. Il conflitto, seppure a bassa intensità, era infatti già presente in Ucraina a partire dal 2014. La postura della Nato nei confronti della Federazione Russa, tra una rivoluzione colorata e l’altra nelle repubbliche ex sovietiche, è stata percepita da Mosca come aggressiva e minacciosa della sua sicurezza più profonda. Mentre tutto ciò accadeva, le nostre classi dirigenti, italiane ed europee, si sono dimostrate totalmente irresponsabili e inadeguate nell’ignorare un focolaio di guerra pronto a divampare al primo vento di crisi.
Coloro che oggi denunciano la violazione del diritto internazionale sono gli stessi che in questi ultimi trent’anni non hanno mosso un dito per le tante guerre scatenate dal cosiddetto “Occidente” nella ex-Jugoslavia, in Iraq, in Afghanistan, in Siria, in Libia, solo per citarne alcuni. E, coerentemente, sono gli stessi che oggi utilizzano parole di guerra per invocare reazioni durissime.
Di fronte al drammatico salto in un’epoca diversa impresso da Putin con un azzardo dai costi umani e politici imprevedibilmente ampi, è impossibile non fare i conti con gli errori commessi dalle classi dirigenti occidentali in Ucraina. Lo sintetizza bene Simone Santini: «Chi, in questi anni, ha lavorato per una Ucraina neutrale, ha lavorato per la pace. Chi, in questi anni, ha lavorato per rafforzare in seno all’Ucraina le forze ultranazionaliste e russofobe, ha lavorato per la guerra.»
Nel momento in cui suonano le trombe della guerra, nessuna autocritica all’orizzonte. Ma sarebbe proprio il momento di avviarla prima di commettere errori peggiori e più disastrosi.
Oggi più che mai, ciò che serve sono gli strumenti della diplomazia, del dialogo e della comprensione delle reciproche posizioni. Strumenti che, come riferito ieri al Parlamento, il nostro ministro degli esteri Luigi Di Maio ha deciso di non utilizzare, abdicando formalmente a quello che dovrebbe essere il suo ruolo e la sua unica funzione. Ciò di cui non abbiamo bisogno è un governo che si tappi le orecchie e insegua le parole di guerra che soffiano travolgendo ogni mediazione.
È innanzitutto un principio di realismo politico considerare le cause delle guerre. Ma prima occorre dissipare la nebbia della propaganda. Non dobbiamo farci arruolare nel clima cupo e conformistico della trance agonistica bellica, nemmeno quando sembra che sia impossibile dissentire dal rumore di fondo dominante.
La via della pace è stretta. Di certo non passa per le sanzioni, per ulteriori escalation, per soluzioni militari impossibili.

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