Bibi il Genocida esulta mentre si allarga sul Golan, rubando ancora altra terra in spregio al diritto internazionale, intanto che finisce di distruggere tutte le infrastrutture militari e compromette qualsiasi futura emersione di un paese sovrano, destinando così la Siria lacera e divisa alle scorrerie e alle decisioni straniere.
Colonne di mezzi pesanti turchi vengono introdotte in vista di scontri asperrimi nelle aree curde: la guerra è appena iniziata.
Ed è guerra anche dal lato USA, che protegge un po’ i curdi ma protegge molto di più il petrolio, che considera roba sua, da anni, dentro un paese sovrano (eh, sì, c’è un invasore e un invaso, ma non ditelo ai grandi media!).
E non finisce qui, non è così semplice. Bibi il genocida ha appena iniziato a bombardare i jihadisti cui aveva a lungo lisciato il pelo. Bibi ha finalmente aperto il vaso di Pandora della grande guerra regionale che voleva. Sì, ribadisco, siamo appena agli inizi. Resterà qualcosa della Siria?
Il futuro della Siria, come quello di ogni realtà storicamente stratificata, non si limita alla sommatoria delle variabili presenti. Esso si radica nella trama storica del territorio, che intreccia la geografia così com’è e le lunghe stratificazioni culturali e sociali che definiscono i confini, sempre labili, tra dominazione e autonomia.
UN PAESE GIOVANE CON RADICI ANTICHE
La Siria come entità nazionale è il prodotto diretto delle spartizioni coloniali del XX secolo. Prima dell’accordo Sykes-Picot che la consegnò al tardo colonialismo francese, era una regione degli imperi musulmani, governata attraverso equilibri che bilanciavano differenze etniche e religiose. Questa complessità, più che una fragilità, era la cifra della sua stabilità imperiale. La frammentazione attuale è, dunque, una costruzione recente, frutto delle imposizioni coloniali e della successiva adozione di modelli statali importati.
LA CENTRALITÀ MILITARE: UNA CONSEGUENZA MATERIALE
L’importanza dell’apparato militare nella Siria contemporanea non è casuale né meramente “autoritaria”. In una regione priva di un’economia capitalistica articolata, l’esercito ha storicamente rappresentato l’unica via di mobilità sociale per le classi subalterne. Esso è diventato il vettore attraverso cui la borghesia locale ha costruito il proprio potere, prima come serva dei mandati coloniali, poi come promotrice di una sovranità post-coloniale intrisa di nazionalismo militante.
LE FAGLIE DELLA DIVERSITÀ
La Siria odierna è un mosaico di comunità religiose ed etniche: sunniti, alawiti, cristiani, curdi, drusi, armeni, palestinesi, ebrei. In un contesto in cui il nazionalismo arabo aveva tentato di imporsi come collante universale, le spinte centrifughe non sono state eliminate ma contenute. L’ideologia del Baa’th, da Hafez al-Assad in poi, ha rappresentato un tentativo di laicizzare l’autorità, creando uno Stato che si poneva al di sopra delle divisioni. Tuttavia, la crisi dello Stato baa’thista ha riattivato quelle stesse divisioni, ora manipolate da attori esterni.
AL-JAWLANI: LA REINVENZIONE DI UN POTERE CALIFFALE
La figura di al-Jawlani rappresenta un tentativo di aggiornare – quasi come certe chimere dell’Intelligenza Artificiale – l’autorità tradizionale attraverso una sintesi impossibile: un califfato “disinnescato”, che promette ordine senza terrore, convivenza senza laicità. Tuttavia, questa proposta s’infrange contro le contraddizioni interne del salafismo contemporaneo e la memoria storica di una coabitazione che era frutto della forza imperiale, non della spontaneità.
ECONOMIA E SOPRAVVIVENZA
La Siria oggi è uno Stato fallito. L’economia si regge su narco-traffici e sui residui di aiuti internazionali. La diseguaglianza tra Damasco, enclave ancora relativamente moderna, e le aree periferiche impoverite è uno dei nodi più complessi. La ricostruzione, stimata in miliardi di dollari, appare lontana, tanto più che gli attori regionali – Turchia, Israele, Arabia Saudita – non hanno interesse a una Siria unificata e sovrana. Ecco perché affilano i coltelli della Premiata Macelleria. A chi la coscia? A chi il filetto?
UN FUTURO DISPERSO TRA GEOPOLITICA E UTOPIA
L’idea di un “califfato moderato” sostenuto dall’asse Doha-Ankara sembra una congettura temeraria. Non solo per le resistenze interne e le rivalità esterne (Qatar e Arabia Saudita, in primis), ma per il costo politico ed economico di qualsiasi progetto unitario. La Siria, come crocevia delle contraddizioni mondiali, rimarrà terreno di sperimentazione di poteri frammentati, delegati, e mai autenticamente autonomi. E molte di queste contraddizioni innescheranno un domino nelle polveriere confinanti. Sono confini in grado di riguardarci in modo pesante anche in terra d’Europa.
Solo che ci governano dei maggiordomi che sono in balia di chi ambisce a riplasmare il mondo attraverso una bella guerra onnicomprensiva.