“Glasnost Trumpiana” con un’eccezione: Israele e i limiti della libertà di parola

 
È vero, l’Amministrazione Trump II ha scatenato tutte le sue strutture per garantire una sorta di “glasnost americana”. Libertà di parola su qualsiasi tema. Tranne quando si tratta di un preciso paese straniero: Israele.
Ci sono sì atti precisi delle agenzie di intelligence guidate da Tulsi Gabbard per ripulire molte incrostazioni illiberali. C’è un’opera di trasparenza radicale che vuole intraprendere il neodirettore dell’FBI, Kash Patel. C’è lo sputtanamento colossale dell’USAID, l’agenzia federale che ha mantenuto in giro per il mondo interi spezzoni di classe politica e associativa nonché legioni di giornalisti totalmente addomesticati per condizionare pesantemente la vita politica di decine – se non centinaia – di paesi. C’è una bufera sulle vecchie censure dei principali social, così come c’è una bufera – a tratti disordinata ma ormai inevitabile – che sta liberando le istituzioni dal “follemente corretto”, l’opprimente sovraccarico censorio “woke”. C’è tutto questo ed è la cosa che – assieme alle proposte di pacificazione per l’Ucraina – sta facendo sbroccare le classi dirigenti globaliste e i loro “clientes”. Ma la differenza di trattamento per Israele è nondimeno un’anomalia troppo ingombrante.
Parlo della decisione di revocare 400 milioni di dollari alla Columbia University per non aver represso “adeguatamente” le critiche a Israele, un atto che rivela un’eccezione clamorosa a questa linea anti-censura. L’università aveva già avviato misure disciplinari contro manifestanti e docenti (cosa di per sé già criticabile) ma al governo non bastava: alla Casa Bianca si strilla che gli ebrei in quanto tali sono stati discriminati. In base a questa forzatissima interpretazione sono puniti coloro che ce l’avevano con il genocidio di Netanyahu, non con gli ebrei. Paradossalmente, molti degli studenti coinvolti nelle proteste erano ebrei, dimostrando una volta di più che il dissenso su Israele non è affatto riducibile all’antisemitismo. Il provvedimento ha sollevato accuse di censura del dibattito attento alle ragioni storiche e politiche del popolo palestinese e creato incertezza sui fondi per la ricerca. L’iniziativa si inserisce in una più ampia strategia per colpire le università che tollerano critiche a Israele, mettendo in discussione il principio stesso di libertà di espressione. Insomma, sulla questione israeliana la censura diventa bipartisan.

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