La guerra dei droni ai tempi di Netanyahu

Quando nel 2015 visitai il sud del Libano, incontrai a più riprese molti esponenti e militanti di Hezbollah. Mi ricordo in particolare alcuni giovani che si affaccendavano con un drone nel piazzale del Museo della Resistenza a Mleeta. Mi raccontavano di essere studenti di ingegneria. Forse volevano unirsi agli altri mille ingegneri che in pochi anni avevano fatto fare a Hezbollah un balzo tecnologico sbalorditivo: in materia di droni non avevano ormai alcun timore reverenziale nei confronti di nessuno. I ragazzi mi spiegavano che quel drone poteva portare un salvagente con millimetrica precisione a un bagnante che rischiasse di annegare. Ottimo uso civile. Ma ho pensato un’altra cosa. I loro fratelli maggiori avevano forgiato una varietà di droni con una gamma di usi sofisticati in campo militare.
Notavo un’incredibile fiducia nei propri mezzi nonostante la prossimità ostile di uno degli eserciti più forti del pianeta.
Nel frattempo, in questi anni, molti significativi eventi bellici hanno visto accrescersi vertiginosamente la capacità operativa dei droni, un mezzo relativamente a buon mercato in grado di annichilire mezzi mille volte più costosi. I grossi galeoni della “Invencible Armada” spagnola nel XVI secolo si dimostrarono non invincibili di fronte a navi inglesi più piccole e agili. Queste rincorse si susseguono nel tempo. I troppo forti tendono razzisticamente a sottovalutare l’intelligenza umana, la ricerca di soluzioni astute, l’audacia, la disponibilità al sacrificio di chi vorrebbero sempre tenere sotto il proprio tallone. Così oggi succede che due basi militari israeliane a ridosso di Gaza (una prigione a cielo aperto, una polveriera continuamente oppressa e rintuzzata con l’uso di mezzi soverchianti), vengano tenute con un livello di vigilanza degno di una caserma di un sobborgo sonnolento di Oslo e siano perciò conquistate con intelligenza militare dai guerriglieri di Hamas. Impressionanti le immagini dei droni che oggi non sganciavano salvagenti. Impressionante vedere l’eliminazione o la cattura mirata di alti ufficiali delle forze armate israeliane specializzati nell’infiltrare il nemico.
Ha voglia una signora italo-israeliana in collegamento su Rete4, stasera, a dire che «i palestinesi non hanno un’anima». Disumanizzare il nemico serve nella propaganda, ma è sempre una sconfitta cognitiva che fa da anticamera a più cocenti sconfitte. Restiamo umani.
Ora Netanyahu risponderà usando in modo davvero brutale il volume schiacciante della sua forza militare, con il cinismo fanatico (o fanatismo cinico?) che ha da sempre contraddistinto la sua carriera nel suo eterno mestiere di guerrafondaio. Vincerà una battaglia. Ma incendierà il Levante oltre la sua capacità di controllo, perché i vicini non sono stati fermi. Nel mosaico mondiale si ricompone la figura unitaria e caotica di una grande guerra.

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